Prima parte: Il diario di Cassandra

Capitolo 1


Un assordante silenzio. Profumo di vaniglia nell'aria. E la rassicurante quiete della pioggia.

La stava osservando distrattamente quel tardo pomeriggio. Egli si sentiva fin troppo malinconico in quel momento, ma forse era solo una stanchezza che ogni tanto lo opprimeva dentro, nelle viscere.

Era un Cavaliere vampiro, dall’aspetto di un uomo giovanissimo, con un viso talmente etereo da sembrare quasi il volto di un ragazzino. I capelli scuri ne risaltavano il pallido incarnato e opachi occhi di ghiaccio raccontavano una storia. Una storia che il Cavaliere teneva dentro, la conservava nel profondo e mai nessuno, si promise, l’avrebbe mai conosciuta.

Sebbene egli fosse d’aspetto così innocente, portava sulle spalle il peso di secoli e quella stanchezza soffocante che ogni tanto gli naufragava i pensieri, era il fatto che aveva vissuto abbastanza a lungo da disgustarsi di tutto ciò che lo circondava, da iniziare ad odiare tutto ciò che esisteva al mondo. Aveva i segni e le cicatrici di lotte, di guerre, di illusioni, di parole non espresse, di promesse non mantenute. Erano segni che quasi comparivano sul suo corpo come fossero tatuaggi impressi nella sua carne con un inchiostro magico, invisibile a molti.

Calava la sera oramai, la pioggia cessò ed il Cavaliere si preparò ad uscire.

Aveva fame.

Doveva a tutti i costi abbandonare il suo castello e andare a caccia di quegli esseri tanto insignificanti quanto gustosi, chiamati umani.

Nella piazza di un villaggio al di là del bosco in cui egli viveva, si teneva quella sera una festa.

Era una festa paesana dove soprattutto ci si divertiva tra danze e musica, frequentata da giovani donne in età da marito e per la maggior parte vergini. Un pasto delicato ma ottimo, per il Cavaliere vampiro. All’eccezionale evento partecipavano anche bambini e qualche anziano, ma egli non li avrebbe attaccati, aveva solo la brama di farsi una scorpacciata con tutti gli altri maledetti parassiti.

La piazza era ormai colma di persone, solamente un uomo mancava all’appello e in quel momento si stava dirigendo verso il portone di un teatro, quando il Cavaliere balzò addosso al malcapitato, stringendolo come una morsa dall’inimmaginabile forza e affondando i suoi perfetti canini nel collo dell’uomo. Gli strappò la carne con feroce eleganza e gli succhiò il sangue fin che la luce negli occhi dell’uomo non si spense. Lo morse e lo divorò poi con tale foga da ferirsi egli stesso. A quel punto il giovane lo calpestò, spaccandogli la spina dorsale, spappolandogli le ossa.

Fu in quel momento che il suo sguardo si posò su un curioso oggetto vicino al portone del teatro. Si avvicinò e lo guardò meglio.

Era una bambola.

Probabilmente l’aveva abbandonata lì una bambina e normalmente, al Cavaliere non sarebbe importato, ma quella bambola lo colpì.

Era molto bella, indossava un abito celeste molto elegante, quasi da principessa. Lunghi capelli a boccoli rossi, la carnagione diafana accentuata da guance rosee, le labbra scarlatte e le pupille degli occhi erano due autentiche pietre che ricordavano il mare. La sua bellezza però era sgualcita da alcune crepe sul viso e sul corpicino, il vestito leggermente strappato e i capelli arruffati.

Senza nemmeno rendersi conto di quel che faceva, il Cavaliere la prese fra le mani e la osservò. Rimase per qualche breve, ma intenso istante a fissarla. Non aveva idea del perché quella bambola lo attraesse così tanto, ma aveva un tale dolce magnetismo che decise di portarla nella sua dimora.

La cena poteva aspettare, quell’ incontro era molto più importante.

Tornato al castello egli si mise all’opera per pulirla, per pettinarla, curarla. La bambola tornò ben presto a risplendere della sua sfavillante bellezza ed emanava un’aurea di dolcezza.

Egli normalmente sarebbe rimasto quasi inorridito da un tale spettacolo, ma quella creatura così piccola e indifesa lo rapì totalmente, tanto da spingerlo a fare una cosa che poteva sembrare assurda.

La baciò. Poggiò le sue labbra ancora lambite di sangue, su quelle della bambola e a quel punto le pietre di acqua marina iniziarono a brillare, le manine scricchiolarono le dita affusolate e un lieve sussurro uscì dalla sua bocca.

La bambola aveva preso vita.

Il Cavaliere vampiro restò sbalordito e lei gli sorrise. Si guardarono a lungo negli occhi, senza dirsi nulla. La bambola lo scrutò, osservando languidamente il volto del giovane. Ad un certo punto lo ringraziò poiché nessuno si era mai preso cura di lei.

L’avevano a lungo maltrattata e derisa, senza rendersi conto che non era un semplice giocattolo, ma l’animo di una donna rinchiuso in quel corpicino. Il Cavaliere fu talmente coinvolto da quella delicata presenza che la promessa fatta a se stesso si spezzò.

Non poteva non raccontare a nessuno la sua storia. Ora c’era Lei a cui raccontarla.

Lei era riuscita a toccarlo nel profondo, a vedere le sue cicatrici. E così si aprì alla bambola e ben presto la sua storia divenne la loro storia.

Con un lieto fine, colmo d’amore.

 

***

 

Ogni volta che facevo questo sogno, mi svegliavo con un sorriso beato sul volto. Mi interrogavo spesso sul suo significato poiché non comprendevo se fosse positivo o negativo. A volte mi spaventava la figura tetra di quel vampiro, altre volte invece mi dava una calda sensazione allo stomaco.

Non potevo parlare con nessuno dei miei sogni, né di questo, né di altri. Nessuno avrebbe capito e così mi sfogavo scrivendo un diario.

Il mio nome è Cassandra McBride, nata il 12 luglio del 634 d.C. e avevo 13 anni quando cominciai ad imprimere su pergamena i miei pensieri, le mie preoccupazioni, i piccoli problemi che affliggevano un'adolescente in un'era difficile e povera.

Oltretutto, mi avrebbero condannata se avessi parlato di un vampiro, come ogni giorno quando mi additavano per strada e le signore anziane mi guardavano storto. Tutto per i miei capelli rossi, il colore del demonio, secondo le credenze popolari.

 Non avevo nessun amico, i genitori dei bambini del mio villaggio, che si trovava nei pressi di Londra, non glielo permettevano di giocare con me. In compenso avevo i miei fratelli, Meredith e Kade di 9 e 16 anni.

Loro non mi detestavano, anzi alle volte prendevano le mie difese quando qualcuno mi insultava.

Vivevamo in una casetta con i nostri genitori. Non eravamo poverissimi, però non potevamo permetterci molte cose. Mia madre badava alla casa e passava maggior parte del tempo a curare il nostro orto ed i campi.

Non si curava invece granché di noi, sebbene preferisse i miei fratelli a me. Non era felice di avere una figlia con i capelli rossi, per il motivo che ho spiegato prima.

Mio padre invece, era più tollerante con me, ma il suo preferito restava Kade, in quanto maschio.

Lavoravano insieme nella bottega di mio padre, ereditata da un amico di famiglia. Faceva il falegname ed era ben voluto da tutti al villaggio. Io e la mia sorellina, invece, eravamo costrette a rammendare gli abiti o lenzuola delle signore. Un modo come un altro per guadagnare qualche moneta in più e distrarci.

Infatti non potevamo permetterci la scuola e così avevamo tanto tempo libero, forse troppo. La mia sorellina la lasciavo di tanto in tanto giocare coi nostri cuginetti durante i pomeriggi di sole.

Ed io cucivo o scrivevo brevi versetti, arti apprese da mia nonna.

Avevo sei anni quando mi insegnò a tessere, ricamare, filare la lana. Credo fosse l'unica persona della mia famiglia che mi amò , incondizionatamente, senza giudicarmi o badare ai miei difetti.

Mi coccolava con le sue storie, mi portava a raccogliere frutti nei pomeriggi di primavera oppure giocava con me sulla neve durante gli inverni più rigidi. Mi confessò una volta che ero la sua preferita, perché ci trovava in me qualcosa di speciale, un qualcosa che in nessuno o in pochi, si poteva scorgere.

Rimproverava mia madre quando si lamentava del mio aspetto. Mia nonna stessa, in gioventù, ebbe problemi con gli abitanti del villaggio, in quanto l'accusarono di essere una strega, poiché aveva una conoscenza per le erbe e le piante curative e le sapeva utilizzare in maniera a dir poco miracolosa.

L'ammiravo tanto per com'era e per le cose che riusciva a compiere. Morì soltanto qualche mese prima che io scrivessi queste pagine.

Andavo spesso a trovarla nel cimitero del villaggio che si trovava sul sentiero del lago.

Il lago, quanto amavo farmi cullare da quella piatta distesa fresca, come quel giorno.

Stavo a mollo con gli occhi chiusi ad ascoltare le dolci melodie della natura. Mi calmavano e l'acqua sentivo che in qualche modo, mi proteggeva dandomi vigore, energie.

A contatto con questo elemento, stavo davvero bene, ripuliva i miei problemi e le mie angosce.

Tranne il pensiero di quei sogni, che restava fisso nella mia mente. Infatti quando mi addormentai, caddi in balia di un nuovo sogno, questa volta un po’ meno romantico.

 

Il villaggio si trovava sotto assedio da alte fiamme che bruciavano tutto quello che accarezzavano e disintegravano i corpi della povera gente che urlava di dolore mentre vestiti e pelle si squagliavano al calore.

Io correvo disperata tra le vie in cerca dei miei fratelli, quando davanti a me apparve una bestia terrificante. Aveva il pelo nero e lucido, con due enormi zanne dalle quali gocciolava una disgustosa bava.

Se ne stava a due zampe, immobile a fissarmi famelico, mentre io avevo in petto il cuore che martellava all'impazzata. Solo quando si mise a quattro zampe, mi decisi a muovermi, a scappare con tutto il fiato che avevo in corpo.

Le fiamme minacciarono il mio percorso e così dovetti dirigermi verso il bosco. La bestia mi inseguiva ad una velocità allarmante. Slittai tra gli alberi ed i rovi del bosco che mi strapparono l'abito celeste ed elegante che stavo indossando.

Credo di non esser mai stata così ben vestita, ma fu ben presto ridotti a brandelli.

Correvo, mi ferivo i piedi, mi tagliavo le mani ed il viso, ma la paura di essere presa mi spingeva in avanti. Continuavo così a correre, a fuggire inseguita dal mostro e da mani di fuoco.

Ad un certo punto, arrivai al limitare del bosco. Sotto a me non vi era che il nulla più assoluto. Le fiamme inghiottivano minacciosamente tutto quello che incontravano, raggiungendo subito dopo, gli alberi del bosco. Quasi potevo sentire il calore del fuoco, alitarmi sulla schiena nuda.

A quel punto, mi raggiunse il ruggito della bestia assieme al suo alito fetido e la sua atroce presenza. Non ebbi altra scelta, dovetti saltare.

 

L'acqua che inalai mi fece svegliare e diedi qualche colpo di tosse prima di riprendermi. Il sogno mi aveva turbata talmente tanto che quasi non riuscii a stare a galla. Dimenai le braccia come una paperella che imparava a nuotare.

Tornai a fatica sulla riva per asciugarmi al sole e meditare su quello strano incubo, il primo così macabro oltretutto.

Solitamente mi appariva il volto del giovane ed affascinante vampiro, questa volta invece sembrava più il presagio di una catastrofe. Decisi di non darci troppa importanza e mi incamminai verso il villaggio.

Durante il tragitto, dovetti prendere il sentiero che al bivio, portava al cimitero ed alle spalle, percepii una folata di brezza gelida. Mi bloccai e mi voltai in direzione del sentiero.

Avevo voglia di far visita alla tomba della nonna. Ma prima dovevo assolutamente recuperare la mia sorellina dai cuginetti.

La loro madre, sorella della mia, era un'allevatrice e mio zio invece, un medico. Non erano quindi poveri come noi e mi piaceva andare a casa loro. Avevano un giardino curato e dei mobili in ebano, a differenza della nostra casetta, nella quale possedevamo solo un tavolo spartano con delle sedie, i letti e qualche mobile costruito da mio padre.

Io e Meredith tornammo verso casa, ma prima le proposi di andare al cimitero.

«Ci sono passata davanti prima. Ti va di andare a salutare la nonna?» le chiesi entusiasta.

«Ma presto farà buio e quel posto mette i brividi!» piagnucolò lei come al solito.

Allora insistetti fino a convincerla. Sapevo essere piuttosto persuasiva, alle volte.

Tornammo così al bivio di tutta fretta, fino a imboccare poi, il sentiero che portava alla nostra meta.

Alte mura circondavano il luogo sacro e un vecchio cancello cigolante, ci permise di entrarvi. Meddy ebbe quasi un brivido, non le piaceva proprio frequentare quel luogo, a differenza di me che lo trovavo tranquillo, rilassante. Rassicurante. Mi capitava di tanto in tanto di recarmici per scrivere il mio diario, quando ero disperata in particolar modo e mi serviva quindi, un posto isolato dove nessuno mi avrebbe trovata e derisa.

Ma ovviamente, rimaneva un mio piccolo segreto. Uno tra i tanti.

Afferrai la mano della mia sorellina e slittammo fra le lapidi, fino a raggiungere quella di mia nonna. 

Tra due cespugli di fiorellini candidi, giaceva una pietra con inciso il suo nome, scritto da me e dai miei fratelli.

Ci fermammo per qualche breve istante dinanzi alla pietra, a contemplarla come fosse il volto della nonna, per salutarla silenziosamente.

Incitai Meddy a inginocchiarsi per pregare ed a quel punto, mi accorsi che mancava qualcosa.

«Accidenti! Li ho completamente dimenticati!» sbottai io lamentosa. Ma dove avevo la testa?!

«Che cosa hai dimenticato?» mi chiese mia sorella con aria accigliata.

«I fiori! Vedi, non ci sono. Li avevo gettati io perché erano secchi. E non ne ho portati di freschi» spiegai dispiaciuta.

«Be' li porterai domani Cassy o la prossima volta, dov'è il problema?»

«È che mi dispiace. Raccoglierò i soliti fiori azzurri che alla nonna piacevano tanto!»

Ci fu un attimo di silenzio e di sospiri colmi di ricordi infantili.

«Le volevi davvero bene» riprese Meddy con tono malinconico.

«Le voglio ancora bene!»

«Sei sempre così gentile e… come si dice?»

«Devota? Sono devota a chi amo, certo. Alla nonna, a te. Sono fatta così!» lì per lì non capii quel senso di perplessità nella mia sorellina. Quel che facevo, lo facevo perché lo sentivo. Perché era giusto. Perché mi sembrava così… naturale.

La gente spesso si dimentica che sono le cose più insignificanti, all'apparenza, a nascondere tanto amore. Affetto incondizionato. Io quelle piccole cose, speravo di renderle sempre grandi.

Volevo che gli altri si sentissero apprezzati come non accadeva mai a me.

Guardai Meddy nella sua espressione innocente, ancora così puramente ingenua. Lei era tutto quello che io non potevo essere. Sarebbe stata amata facilmente da chiunque.

Era la musica che si fischietta al mattino che a me nessuno mai farebbe ascoltare. Era la poesia che a me, mai nessuno avrebbe dedicato. Sarebbe stata la musa ispiratrice per chiunque, con la sua delicata bellezza e la sua genuinità. Anche dall'inferno si possono ammirare le stelle.

Continuava a guardarmi con i suoi grandi occhi espressivi ed interrogativi. «Avrei voluto anche io fare tante cose con la nonna» aggiunse abbassando poi lo sguardo sulla tomba.

«Anche lei ti voleva molto bene, sai. Ovunque si trova ora, sono sicura che ti è vicina ogni volta che fai qualcosa di importante. Lei ci assiste sempre» la incoraggiai io con un largo sorriso. Perché credevo davvero in quel che le dissi e mi dispiaceva del fatto che non ebbe modo di conoscerla, come la conobbi io.

In quello stesso istante, vidi Meddy allungare una mano verso il cespuglio accanto alla lapide e strappare delicatamente qualche fiorellino bianco, per poi poggiarlo sulla tomba.

Quel gesto carico di dolcezza mi riempì il cuore. Ero certa che la nonna ci sentisse e ci osservasse.

Ed era felice.

Percepivo ancora una lieve brezza, accarezzarmi la schiena. Abbracciai forte Meddy e terminammo le nostre preghiere.

Poco dopo, mi fece notare di quanto si faceva tardi e l'ora di rincasare era ormai giunta. Anzi, sicuramente eravamo in netto ritardo.

Tornammo al sentiero fino ad arrivare al villaggio, dove lungo la strada verso casa, Meddy mi indicò un cartello con un avviso appeso al tronco di un albero.

Ricordava a tutti che ci sarebbe stata la solita festicciola paesana la sera seguente. Ciò significava tanta musica, danze, vino e artisti di strada ad animare le strade del paese.

Mi venne in mente un dubbio spaventoso.

Se quell'incendio che sognai fosse collegato all'evento o se fosse solamente un bizzarra coincidenza.

Meredith mi strappò dai miei pensieri strattonandomi la gonna. Tornammo quindi a casa prendendo la rincorsa e lì, c'era nostra madre che aveva da poco terminato di vangare l'orto.

Mi guardò con aria truce e mi si avvicinò di scatto.

«Hai i capelli bagnati» osservò severa, dandomi uno sonoro ceffone. «Sei stata di nuovo al lago!» mi urlò in faccia.

Lo schiaffo non mi fece male, per abitudine. «Invece di lavorare te ne vai a fare il bagno» continuò con rabbia ingiustificata negli occhi.

«In realtà avevo finito prima e così… ho pensato di prendermi una pausa» confessai.

«Portateli dentro, domattina li consegnerete» ordinò arcigna. Non avrebbe mai voluto sentir ragioni. Qualsiasi cosa io dicessi, mi si sarebbe comunque ritorta contro.

Meredith mi passò il cesto con gli abiti che avevo cucito per due signorotte del villaggio e lo posai nella mia stanza.

Sopra al comodino conservavo un grosso frammento di specchio. Mi guardai il viso, tastandomi i segni delle dita di mia madre. Colta dalla rabbia di quell'infausto gesto, corsi fuori casa, scappando tra i campi. Il rosso del crepuscolo mi invadeva tutta, facendo scintillare come fuoco la mia folta chioma.

Mi sdraiai tra le spighe di grano ed osservai il cielo.

Ad un certo punto, il sole venne coperto dalla testa della mia sorellina.

«Mi dispiace per prima, Cassy» esclamò sincera.

«Non ti preoccupare» la rassicurai mettendomi a sedere ed abbracciandola.

«Qualsiasi cosa possa accadere, ricordati sempre che ti voglio un bene infinito Meddy» le sorrisi affettuosamente.

«Anche io sorellona, ma perché dici questo?» mi guardò interrogativa ed in effetti non avevo una risposta da dare.

«Non lo so... mi sono sentita di dirtelo... forse perché non lo faccio molto spesso» lei fece spallucce.

«Posso farti le trecce?» mi chiese con la sua solita aria innocente.

«Ma certo... però fai presto, tra un po’ sarà pronta la cena» i nostri genitori pretendevano che fossimo tutti presenti a tavola quando si cenava o pranzava, anche se eravamo ammalati.

Sentii le dita fini di Meddy giocherellare con le ciocche dei miei capelli. Quasi invidiavo i suoi, biondissimi come quelli di mia madre. , i capelli erano la mia rovina.

Fissai il vuoto, rendendomi conto di quanto un particolare così frivolo, potesse trasformarsi in un terribile difetto agli occhi della gente.

 

Quando facemmo ritorno a casa, l'unica cosa che mi fece sorridere e che mi costrinse a restare, era il profumo della zuppa.

Mio padre e Kade erano già tornati.

Ci salutammo e mio padre diede un bacio sulla fronte a me ed uno a Meddy, chiedendoci come mai la mamma fosse cosi nervosa.

«È perché sono andata al lago» confessai a testa bassa.

«Cara, se ci è andata a lavoro terminato, dov'è il problema? ve la prendete troppo» esclamò mio padre in direzione di mia madre, che in quel momento si teneva impegnata a versare la zuppa nelle scodelle.

«Lo sapete il motivo, non voglio che la vedano aggirarsi da sola per i boschi, chissà quali idee si farebbe la gente in paese» si lamentò lei.

«Ascolta tua madre Cassy, non andarci troppo spesso» mi stupì mio padre, quando le diede ragione. Decisi di non ribattere, sarebbe stato del tutto inutile.

Consumai il pasto in silenzio, subendo le solite lamentele di mia madre e gli inutili pettegolezzi sul villaggio di mio padre. Mi ignoravano e pensai che fosse la miglior cosa, poiché non mi sentivo affatto comunicativa.

 

 

 

Capitolo 2

 

Dopo cena mi recai in giardino di soppiatto, ad ammirare le stelle. Lo sguardo si spostò verso il granaio, dove vi sgattaiolò Kade.

Conoscevo il suo piccolo segreto. Anche lui ne aveva uno, del resto come tutti, no?

Di tanto in tanto si incontrava di nascosto con una brunetta, la figlia di una donna alla quale non piaceva a mia madre poiché la considerava una poco di buono.

Frequentava le locande e si faceva pagare da bere da chiunque.

Ma a me non importava, mi facevo i fatti miei. Riflettei su quanto potevano essere rigidi i nostri genitori nel loro esagerato modo di proteggere la loro reputazione.

Quei pensieri si affievolirono nel momento in cui chiusi gli occhi e lasciai spazio ad un cielo privo di stelle.

 

Indossavo stavolta nient'altro che un lenzuolo, sistemato alla bene e meglio per coprirmi. Attorno a me c'era un recinto, mura invalicabili e profondi fossati.

Mi sentivo inquieta, osservata.

Avanzai adagio cercando di capire che luogo fosse mai quello. Ad un certo punto scrutai in cima ad un muro, il Cavaliere vampiro che in genere appariva come protagonista negli altri miei sogni.

Calò una fune alla quale mi aggrappai e velocemente arrivai in cima.

Non riuscivo a vederlo bene, a coglierne i dettagli. Era come se fosse avvolto da una cortina di fumo nero. Oppure come se fosse una sorta di ombra, con due occhi che erano due scintillanti pietre preziose.

Mi abbracciò in silenzio e mi baciò, chiudendo gli occhi.

A quel punto ci ritrovammo al centro di una radura, circondati da lupi dallo sguardo agghiacciante.

Sguainò la spada e tenendomi stretta la mano, balzò al di sopra di un nemico e corremmo tra gli alberi, arrivando in un secondo spiazzo in cui riposava quello che doveva essere il suo destriero.

I lupi ci raggiunsero ed egli mozzò loro la testa con qualche colpo di spada. Il sangue zampillava copioso sull'erba, trasformandola in argento.

Tutto diventò grigio ed in groppa al cavallo bruno, scappammo dal bosco.

Appena certi di essere al sicuro, mi guardò negli occhi sussurrandomi qualcosa.

«Cassy svegliati! avanti svegliati» urlò più forte.

Era mia madre in verità, venuta a riportarmi in casa. «Non so proprio che fare con te figlia mia! non ti rendi conto che è pericoloso stare fuori di notte tutta sola! fila a letto» mi ordinò agitata.

«Sì madre, buona notte» risposi obbediente ancora intontita dal sonno e dal sogno appena fatto.

Mi slegai le trecce meditando sul possibile significato di quell'ultimo sogno. Sembrava sempre tutto reale, fin troppo per sembrare solo una banale manifestazione della mia fantasia.

Scoppiai a piangere, perché non avevo nessuno con cui confidarmi.

Desideravo fermamente che mia nonna fosse accanto a me, lei mi avrebbe ascoltata e capita, senza deridermi, senza giudicarmi. Mi sdraiai stancamente sul letto, una stanchezza più emotiva che non fisica.

Ipotizzai che quei sogni potevano essere una sorta di avvertimento, qualcosa al villaggio sarebbe successo ma qualcuno di misterioso mi avrebbe salvato.

Avrebbe aiutato proprio me, la ragazzina per tutti invisibile.

Era la spiegazione maggiormente logica che riuscii a dare al significato di quei sogni, che ricominciarono non appena chiusi nuovamente gli occhi.

Stavolta la protagonista era di nuovo la bambola. Rappresentava ancora me? Il suo corpo era fatto interamente di paglia, con un vestito di semplice stoffa, macchiato di sangue all'altezza del petto dove sfoggiava un buco.

La bambola trasportava un sassolino a forma di cuore. Camminava tra le strade vuote di una spenta città.

Nell'aria una dolce fragranza di vaniglia la incitava a non perdersi d'animo. Davanti alle porte delle case, vi giacevano riversi i cadaveri putrefatti degli abitanti, ma la bambola pareva non farci caso.

Tuttavia era uno spettacolo veramente agghiacciante. La natura sembrava marcia, morta. Le case imbrattate di sangue, con gli organi dei cadaveri a terra.

Eppure la bambola rimaneva impassibile, quasi indifferente.

Arrivò poco dopo nei pressi di una cattedrale. Alzò lo sguardo nostalgico e restò immobile per qualche istante, fin tanto che percepì più intensamente il profumo di vaniglia.

Questo la spronò ad avanzare, riuscendo così ad arrivare ad una piazzetta. Al centro vi era ferito il Cavaliere vampiro, che stava attendendo la sua rapsodia.

Ella quindi gli si avvicinò e soffiò sulle ferite del vampiro, rimarginandole all'istante. Egli a sua volta, ripose nel petto della bambola il sassolino e cercò di ripulirla dal sangue secco.

Ma purtroppo per i due, giunse il tempo di scappare, poiché affilate spine di grossi rovi e radici d'edera velenosa, avanzavano nella loro direzione.

Qualunque cosa toccavano, si sgretolava facendo sanguinare qualsiasi oggetto.

Il fluido cremisi sgorgava da muri, colonne, dal pavimento. Sembrava che la città intera vivesse e stesse respirando affannosamente. Quel inspirare ed espirare faceva oscillare le strade e dovettero lottare contro la gravità, i due, per poter mantenersi in equilibrio.

Quando la minaccia li raggiunse, egli si difese con la sua spada, rendendo ad un mucchietto di brandelli i rovi.

Ma nel bosco, furono finalmente salvi e poterono tranquillamente tornare nel loro castello, il loro nido d'amore.

La bambola si sentì esausta, ma felice. Aveva vagato a lungo alla ricerca del suo Cavaliere vampiro, con il cuore spezzato, ferito, scalfitto, ma ancora caldo.

Ed egli glielo aveva sistemato, si teneva pronto a prendersi totalmente cura di lei. La bambola si sentì nuovamente protetta. Si sentì nuovamente a casa. Il mondo attorno a loro prese un vivace colore violaceo e tutto splendeva di una sfavillante luce bianca.

Erano i primi timidi raggi del sole che attraversavano le tendine della finestra e mi punzecchiavano gli occhi, costringendomi ad aprirli.

Avevo dormito probabilmente più del dovuto, ma ne era valsa decisamente la pena. Mi rimase dentro una dolce sensazione che solleticava ogni fibra del mio essere e mi faceva sorridere.

Sorridere come rare volte riuscivo a fare.

 

Quella mattina dovetti consegnare gli abiti sistemati alle legittime proprietarie.

La prima fu la signora Stone. Mi andava piuttosto a genio, una delle poche signore anziane che non mi guardava con aria schifata, forse anche per il fatto che conosceva bene mia nonna.

Infatti da giovani erano amiche.

Diceva sempre che avevo i suoi stessi occhi da cerbiatta. Bussai timidamente alla sua porta.

«Oh buongiorno piccola, prego entra» mi salutò la donna.

Viveva in un'accogliente casetta nei pressi del villaggio, circondata da una cinquantina se non più, di chiassose galline. Riempivano completamente la casa e l'esterno. Se ne trovavano praticamente ovunque. Detestavo quella puzza che le accompagnava.

«Dunque mia cara, vediamo un po’» la signora Stone sfogliò dalla carta di foglie di mais l'abito che le rammendai. Aveva un enorme buco sul fianco sinistro ed io, invece di metterci una semplice toppa, lo coprii con un fiore realizzato da striscioline di stoffa avanzata.

«Certo che ci sai fare, sei proprio come Adele» si complimentò la donna, riferendosi alla mia nonnina.

«Ho fatto del mio meglio e poi così le da un tocco in più di raffinatezza» ero fiera della riuscita.

«Mi piace proprio. Sai questo è l'abito buono che indosso per andare in Chiesa, mi sarebbe dispiaciuto molto doverlo buttare e la mia vista non è più quella di un tempo, quindi non potevo ricucirlo» mi spiegò frugando in un sacchetto.

«Ecco a te» mi diede il mio compenso.

«Signora ma sono tre monete. Per il lavoro sono due…»

Mi sorrise con aria affabile. «Suvvia, accettane tre. Regalo mio» non mi sembrò vero, quasi mi commossi.

«Grazie di cuore, signora Stone» mi diede uno sbuffetto sulla guancia e me ne andai ancora ringraziandola incredula di quel semplice, ma gentile gesto.

Un bocconcino dolce, prima di mandare giù quello amaro, ovvero la signora Penny Wilson, nonché moglie dello sceriffo.

Se non avesse sposato quell'importante figura, sarebbe stata una comunissima signora nessuno.

Oltre che scorbutica era anche piuttosto bruttina, con uno strano seno a punta. Non ho mai capito perché avesse i seni in quel modo, fatto sta che ogni volta che le ci si avvicinava troppo, si rischiava di bucarsi un occhio con quei cosi appuntiti.

Quando mi vide arrivare, davanti la stazione dello sceriffo, assunse un'espressione imbronciata, portandosi le mani ai fianchi.

«Certo che ce ne hai messo di tempo» squillò ad alta voce.

«Perdonatemi signora Wilson, mi aveva trattenuta la signora Stone e così…»

Mi interruppe bruscamente. «Non voglio sentire le tue giustificazioni, dammi qua e basta. Quest'abito mi serve per stasera» mi pagò con le consuete due monete e ringraziai il più cortesemente possibile, sebbene avrei solamente voluto scappare imprecando, tanto mi innervosiva la sua vocina ed i suoi modi.

«A proposito di stasera» riprese altezzosamente. «Il sindaco ti vuole parlare, vai subito da lui» rimasi quasi sbalordita.

«Il sindaco in persona?» ripetei io.

«Sei anche sorda per caso? Sì, ti aspetta a casa sua» non perdei altro tempo, mi chiesi quale potesse essere il motivo, mi augurai che non fosse nulla di negativo.

L'abitazione del sindaco non era difficile da trovare, poiché si trovava sopra ad una collinetta, quasi a voler padroneggiare sul villaggio. Esitante salii gli scalini emozionata.

Arrivata in cima, dinanzi al portone, bussai con maggiore decisione.

Mi aprì la domestica, che cortesemente mi fece accomodare.

«Chiamo subito il sindaco e lo avviso del tuo arrivo. Mi puoi ricordare il tuo nome?» me lo chiese con una smorfia, come se avesse capito chi fossi, ma di fatto, non conosceva nulla di me.

«Cassandra McBride» risposi sorridendo, mantenendomi composta per fare finta di nulla. Oramai ero fin troppo abituata a fare buon viso a cattivo gioco, in certe situazioni.

La donna sparì in un'altra stanza.

Mi guardai attorno, l'abitazione era accogliente, ma non troppo sfarzosa. Ma pur sempre dall'arredamento elegante.

Dopo pochi istanti, dalla stanza fece capolino il sindaco Ward, con il suo pancione coperto da un abito classico.

«Buongiorno signor sindaco, mi hanno riferito che mi volevate parlare» salutai, mentre mi faceva cenno di sedere sulla poltrona.

«È da parte di mia moglie, vorrebbe… ingaggiarti, se si può dire. Ha sentito dire infatti che sei brava a tessere e cucire» quelle parole mi riempirono d'orgoglio.

«Me la cavo» risposi modestamente.

«Bene. Per questa sera mia moglie aveva pensato di distribuire maschere. Sono avanzate dall'anno scorso, ma vorrebbe che tu le ornassi un po'. Sai, per la festa. Il tutto per otto monete. Che ne dici?» significava dover lavorare tutto il pomeriggio, ma di certo ne valeva la pena per quella cifra. Non che fosse tantissimo, probabilmente altri avrebbero declinato l'offerta, ma per me era moltissimo.

«Quante sono esattamente e per che ora devono essere pronte?» sperai di avere il tempo necessario per realizzare qualcosa di unico.

«Hai tempo fino al tramonto. In totale non saprei, ma circa un centinaio. Vai al teatro, lì troverai il materiale che ti serve e riporta tutto al tramonto, mi troverai sul posto. Ti pagherò e penserò al resto, va bene signorinella?» mi sentii felice di avere quella responsabilità. In barba a chi mi voleva male!

«Accetto! vado subito» non vedevo l'ora di cominciare.

«Soltanto una cosa... nessuno dovrà sapere che le hai fatte tu» quelle parole arrivarono come uno schiaffo alla mia dignità ed orgoglio, ma capii il motivo.

Senza dare una risposta quindi, uscii dall'abitazione, sconsolata. Scendendo le scale, mi notarono due signore che si affrettarono a vociferare tra loro.

Chissà che cosa credevano, che magari il signor Ward mi aveva convocata per dirmene quattro sulla mia nascita, cosa che non chiesi io tra l'altro.

Lo ammetto, ero delusa, ma questo non mi fermò. Adoravo essere creativa e ancor meglio, sentirmi utile.

Era la gente che mi innervosiva ed il loro pensiero. Inspiegabilmente mi stava salendo una vaga sensazione di panico. E se si fosse scoperto e mi avrebbero giudicata o derisa come al solito?

Per una buffa, ma non insolita coincidenza, proprio in quel momento, incrociai il  prete della nostra Chiesa, Don Remington, che mi guardò con aria interrogativa e sospetta.

«Figliola, che cosa ti succede? Hai una truce espressione in quel innocente viso» esordì avvicinandomi.

«Nulla, Don Remington, sono solo concentrata e sovrappensiero» risposi distrattamente.

«Oh lo vedo… non ho potuto fare a meno di notare, che sei uscita dalla casa del sindaco. Ci sono forse problemi?» non me lo chiese con tono accusatorio, ma non avevo ancora capito, dopo tanti anni, se il prete fosse dalla mia parte o meno.

«Nessun problema, doveva commissionarmi un lavoro, poiché le voci corrono e tutti oramai sanno che sono brava a tessere e cucire!» lo dissi con entusiasmo e convinzione, ma mi resi conto al tempo stesso, di quando avessi a che fare con l'ipocrisia.

Dopodiché lo salutai affrettandomi, avevo molto da fare e non era il caso di perdermi in chiacchiere.

Mi precipitai quindi, nel teatro del villaggio. Aprii la porta scricchiolando rumorosamente e mi accorsi che al suo interno non vi era nessuno.

Sopra ad un tavolino trovai tre ceste.

Due contenevano le maschere e la terza, materiale vario. Scampoli, piume, merletti, pizzi. C'era molto da fare e il sole stava raggiungendo il picco della giornata, di già.

Dovevo pensare ad un luogo tranquillo in cui lavorare senza essere vista e disturbata. A casa mia non potevo andarci, mia madre mi avrebbe condannata burlandosi di me e rimproverandomi con chissà qualche nuovo motivo.

Dunque mi venne in mente la vecchia casa della nonna. Una baracchetta poco fuori paese. Lì potevo trovare ulteriore materiale che avevo lasciato ed il quale mi sarebbe stato utile.

Adoravo recarmici di tanto in tanto e fu proprio lì che cominciai a scrivere le pagine del mio diario, lontana da tutto e tutti.

Come mi aspettai, in quella zona non ci trovai nessuno, solo la baracca di mia nonna, ormai per metà rovinata dalle intemperie, tra freddo e umidità, per metà invece coperta dall'edera e nascosta da una fitta vegetazione.

Al suo interno vi erano rimaste oramai poche cose, tra le quali coperte, un tavolo e delle sedie, cianfrusaglie riposte alla bene e meglio in casse di legno. E fra quelle cianfrusaglie, potevo trovare qualcosa di utile al mio scopo.

 Preparai tutto il materiale e feci una suddivisione tra le maschere destinate ai bambini, agli uomini ed alle donne. Poco prima di iniziare, uscii a raccogliere qualche bacca da consumare come pasto.

Cominciai infine a decorare con merletti le maschere delle donne, mentre quelle per gli uomini le resi più vivaci con piume colorate.

Continuai senza fermarmi per ore ed ore, canticchiando un motivetto che ascoltavo da bambina, insegnatomi dalla nonna. Il lavoro però risultò essere piuttosto lungo poiché furono davvero tante, quasi 300.

Nel pomeriggio, il mio laborioso compito venne interrotto da sinistri rumori esterni. Mi affacciai furtivamente alla finestra impolverata, liberandomi la visione con una coperta.

All'esterno riuscii a scorgere mio zio, fratello di mio padre, in compagnia di un tanto misterioso quanto ambiguo tizio vestito in maniera impeccabile.

Era decisamente alto, con capelli lunghi corvini e barba incolta. Gli occhi piccoli in un'espressione rigida. Sembrava un uomo fisicamente forte, come un guerriero, ed aveva il viso di uno che sapeva il fatto suo, con un eccezionale bagaglio di esperienza e sangue alle spalle.

Ciò che mi insospettì fu il fatto che si trovassero proprio in quel luogo anziché al villaggio. Sembrava infatti che dovessero confabulare qualcosa in segreto, parlavano a voce molto bassa.

Per mia fortuna non si mossero, sebbene temei che potessero entrare. Io non sarei potuta uscire, mi avrebbero sentita di certo, oppure vista. Non sapevo che fare, mi prese una sensazione poco piacevole.

Quel tipo c'aveva un qualcosa che quasi mi spaventava, per questo sentivo il bisogno di proteggermi.

Passò qualche minuto e finalmente, dopo tanto gesticolare, mio zio consegnò al tipo losco una scatoletta e successivamente lo guardò allontanarsi, per tornare verso la strada. Prima di andarsene a sua volta, mio zio si guardò attorno come ad accertarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi.

Aveva un'espressione preoccupata. Chi poteva mai essere quel tipaccio?

Certa di esser rimasta sola, continuai a decorare le maschere, senza però riuscire a distrarre i pensieri su quell'episodio. Mio zio non mi era mai piaciuto, era il proprietario di una drogheria e per questo si credeva di essere quasi un principe, non aveva nemmeno una briciola dell'umiltà di mio padre.

Talvolta mi chiedevo se erano davvero fratelli, per quanto fossero diversi fra loro in portamento e carattere.

Ad ogni modo, il crepuscolo ben presto arrivò e fu così giunta l'ora di portare il lavoro, finalmente terminato, al sindaco.

Piegai con cura le coperte e il resto del materiale che avevo avanzato, per riporli poi in un angolino. Mi sarebbero potuti servire per dei lavori futuri, ma di certo non potevo portarmeli a casa in quel momento.

Mi voltai in direzione del tavolo per recuperare le ceste, quando notai un'asse del pavimento in legno, un poco sollevata.

Per qualche strana ragione mi incuriosì e mi avvicinai, con le assi che scricchiolavano paurosamente. Probabilmente fu per l'umidità che il legno si era sollevato o chissà che altro, eppure una sensazione sullo stomaco mi spinse a controllare quell'asse.

Non a caso mi accorsi che nascondeva qualcosa. Ma com'era possibile? La nonna non me ne aveva mai parlato di un tesoro segreto o qualcosa di simile!

E perché nasconderlo?

 

 

 

Capitolo 3

 


Allungai la mano, ma mi bloccai quasi all'istante. Era giusto profanare un segreto di mia nonna? Avrei davvero dovuto guardare? Non me ne ero mai accorta prima di allora o forse, non ci avevo fatto caso. Tuttavia la curiosità si fece oppressiva e vi dovetti cedere.

Decisi quindi di spostare totalmente l'asse, scoprendo così un buco. Allungai la mano al suo interno, rovistando, toccando infine con la punta delle dita, un oggetto che pareva di carta. Mi allungai ancora di poco e lo afferrai, scoprendo così che non era altro che una sorta di libro. In realtà era una pila di fogli di pergamena rilegati e parevano essere molto vecchi. Un poco stropicciati, oltretutto.

Mi spostai verso il tavolo per raggiungere la luce e poterlo esaminare. Tra le pagine vi era avvolto un oggetto che mi sfuggì dalle mani e cadde a terra con un tonfo leggero. Mi abbassai per raccoglierlo, era una pietra di un blu assai scuro. Una tonalità che non avevo mai visto prima. Era una pietra bellissima, ma a me sconosciuta. Da dove proveniva?

Sconosciuta era anche la lingua con la quale fu scritto il libro. Non riuscivo affatto a leggerlo, il titolo era, “Livre des Ombres”, e decisamente questo, non era inglese.

Dava l'impressione di essere una sorta di diario o meglio ancora, sembravano essere degli appunti. Mi chiesi se fosse stata mia nonna a scriverlo e come poteva conoscere quella lingua tanto diversa dalla nostra.

Sfogliai le pagine, oltre alle scritte, vi erano scarabocchi di piante e animali. E vari simboli che indicavano le fasi lunari.

Mi incuriosiva non poco e decisi di nasconderlo per riprenderlo quando sarei tornata per recuperare il materiale tessile. Lo avrei letto con più attenzione, cercando almeno di capire di cosa si poteva trattare, andando a intuizione. Magari prima o poi avrei anche trovato chi sapeva tradurlo.

Escludevo di chiedere a mia madre, informazioni al riguardo. Non avrebbe capito e inoltre, se mia nonna lo nascondeva, un motivo doveva pur esserci. Ed era un motivo valido, ne ero certa.

Mi ricordai poi della pietra. A cosa serviva? O meglio, che ne avrei fatto? Se era avvolta nel libro, significava indubbiamente che a qualcosa serviva e che aveva una certa importanza.

Mi venne l'idea di legarla ad una cordicella e farne un ciondolo. Lo riposi poi in una tasca che avevo cucito all'interno della gonna.

Solo in quel momento, voltandomi verso la finestra, notai quanto fosse tardi. Il crepuscolo avanzava rapidamente con la sua macchia rossastra.

Mi sistemai alla meglio e dopo aver recuperato le ceste contenenti le maschere, mi precipitai verso il sentiero.

Feci una corsa fino al teatro, dimenticandomi perfino delle preoccupazioni, complice anche il ritrovamento dei tesori della nonna.

Mentre mi avvicinavo alla meta, riuscii a sentire debolmente, un profumo nell'aria. Un odore che mi era famigliare, ma non mi veniva in mente nulla di particolare che me lo ricordasse.

Non seppi per quale motivo, ma ne rimasi colpita.

Osservai attorno a me, per cercare di percepire la direzione del vento e capire quindi da quale direzione arrivasse, ma un rumore mi fece sobbalzare.

«Ah sei qui finalmente, su avanti entra» mi incitò il sindaco che sbuffando aveva aperto il portone del teatro senza che me ne accorgessi.

 «Le ho fatte tutte» lo informai, mentre lui mi porse un sacchettino con il mio compenso.

«Sei brava bambina, vai pure e... grazie. I responsabili della festa, li distribuiranno tra poco» non vedevo l'ora di vedere indossati i miei capolavori.

Una maschera la tenni per me, era violetta e la rifinii con un merletto blu scuro. La guardai soddisfatta mentre uscivo dal teatro, sarebbe stata intonata alla mia carnagione ed ai miei capelli, mi avrebbe coperto solamente la fascia degli occhi.

Mi resi conto solamente dopo, che l'odore non lo sentivo più. Alla fine, mi convinsi che probabilmente veniva da qualche bancarella. Stavano infatti allestendo in fretta le decorazioni e bancarelle tra le strade del villaggio, che a breve sarebbero state invase dagli abitanti pronti a darsi ai festeggiamenti.

Quando tornai a casa e consegnai tutte le monete ai miei genitori, mi risparmiarono dallo schiaffeggiarmi per non aver avvisato che sarei rimasta fuori casa per tutto il giorno. Mio padre si congratulò con me con una pacca sulla spalla, mentre per mia madre al solito, non avevo compiuto altro che il mio dovere. In compenso i miei fratelli si complimentarono con me per l'incarico ricevuto. Sicuramente una piccola, ma gratificante consolazione in un tentativo di farmi sentire apprezzata.

Soprattutto ringraziai i miei fratelli per averci almeno provato.

Non dissi nulla di mio zio e dello strano tipo, ma ci ripensai per qualche istante. Mi resi conto che la figura di quel tizio, mi ricordava qualcuno, ma probabilmente fu solo una vaga impressione.

Mi cambiai d'abito e mi sistemai i capelli prima di cena, per prepararmi alla serata, indossando la pietra che avevo trovato, pur nascondendola con l'abito.

Sperai infondo di farmi notare da qualche ragazzo, poiché inconsciamente desideravo essere apprezzata da qualcuno del sesso opposto, se la mia famiglia proprio non ci riusciva.

A proposito di sesso, non ne sapevo granché. Poche e confuse nozioni apprese da mio fratello in sporadiche conversazioni con gli amici. All'epoca era proibito affrontare certi argomenti, quindi l'intimità la si scopriva da sé e tante volte capitava nel peggiore dei modi. Anche la masturbazione era fuori questione nel dialogo, considerato come un gesto di peccato. Per paura di essere scoperta non lo feci mai e francamente, non ci pensavo, quindi non mi davo modo di rimuginarci.

Ma ammetto che il mondo maschile ed il sesso mi incuriosivano parecchio, mi attraeva l'argomento. Forse proprio perché proibito.

 Mi capitava anche di fantasticare sulla mia prima volta, con l'uomo del mio cuore. Ma l'unico uomo che piombò nella mia stanza in quel momento, fu mio fratello Kade.

«Senti... ti devo chiedere un favore» bisbigliò avvicinandosi a me.

«Dimmi pure» lo guardai interrogativa, sembrava un delinquente che si nascondeva dalle guardie.

«So che tu sai. Stasera andiamo insieme alla festa, ma con Meddy ci resti tu, io mi vedo con Loreena» chiaramente si riferiva alla ragazza che frequentava di nascosto.

«Il mio comodino cigola... è rovinato, vedi? e dietro è mangiucchiato dalle termiti» se voleva il mio aiuto, io avrei dovuto almeno guadagnarci.

«Va bene, te ne farò uno nuovo. Grazie sorellina» quando facevo ciò che voleva diventavo automaticamente la sua sorellina.

 

Dopo cena come previsto, uscimmo io ed i miei fratelli e non appena fummo abbastanza lontani da non essere notati dai nostri genitori, Kade si diresse verso alcune baracche abbandonate dove si era dato appuntamento con la sua Loreena.

Io e la mia sorellina invece, proseguimmo verso la piazza.

Nella via che conduceva alla nostra meta, vi erano allestite alcune bancarelle in cui vendevano tessuti ed abiti, altre invece statuette e lavoretti in peltro e legno. E ancora, bancarelle di formaggi, di insaccati e vino, perfino di tappeti.

Vi si poteva trovare un po’ di tutto insomma.

I bambini correvano e giocavano, però quando ci videro arrivare, mi sentii i loro occhi puntati tutti contro.

Lasciai la manina di Meddy senza nemmeno accorgermene, rapita dal disagio. Lei mi strattonò il braccio, come se avesse capito e mi riprese la mano.

Avanzai a testa alta, sotto gli sguardi concreti o immaginari della gente. Non avrei dovuto pormi troppi problemi, anzi, mi imposi di divertirmi.

Osservavo la fila di bancarelle e tutti gli oggetti esposti, sognando un giorno di potermi permettere qualsiasi cosa e di non dover più soffrire la fame o sgobbare per due monete.

In effetti, non riflettevo troppo spesso sul futuro, forse perché in fondo, non ne valeva nemmeno la pena.

Affrontavo tutto alla giornata, con l’unico interesse di proteggere me e mia sorella. Inoltre, mi era andata bene, molte ragazzine della mia età venivano vendute per prostituirsi nelle grandi città.

Rabbrividii a quel pensiero.

Peggio ancora, sarei potuta finire nelle mani di trafficanti di schiavi. Conoscevo una ragazzina che fece quella fine, sorella di un bambino che in quel momento mi passò davanti e voltandosi dalla mia parte, potei notare la sua triste espressione.

Mi saliva un tale nervoso in quei casi. I bambini non avrebbero dovuto mai essere tristi, nulla avrebbe dovuto intaccare la loro innocenza.

Dalla piazza giungevano gli allegri suoni degli schiamazzi che facevano il coro ad una musica di letizia.

Violoncelli, clavicembali, qualche ribecca e cetra davano ritmo ad un gruppetto di danzatrici.

Meddy mi indicò uno spiazzo in cui vi erano raggruppate alcune persone.

«Guarda è lì che distribuiscono le tue maschere!» esclamò con un sorriso divertito e fiero.

«Andiamo, te ne prendo una» mi ricordai in quel momento di aver portato la mia e così la indossai.

A distribuire i miei lavoretti, c’era il coordinatore dell’evento che riconoscendomi, mi porse una mascherina rosa e bianca per mia sorella. Quando la indossò, sfoggiò un sorriso ancora più sfavillante e i suoi occhi verdi risaltarono sul particolare taglio di fori della maschera, a forma di cuori. Le bastava davvero poco per essere felice, mi faceva un’immensa tenerezza.

Dopodiché facemmo il giro della piazza, mentre Meddy salutava i suoi amichetti che a stento si potevano riconoscere, indossando le maschere.

Un po’ mi dispiaceva non poter dire a tutti che le avevo realizzate io, ma la soddisfazione l’ottenni lo stesso e non importa se il mio nome non veniva pronunciato per qualcosa di buono, una volta tanto.

E fu proprio in quel preciso istante, che arrivò a solleticarmi le narici, il solito profumo indecifrabile, ma famigliare. Non lo sentivo molto forte, quindi pensai che doveva essere piuttosto distante, ma non troppo.

Tutt'ad un tratto, lo sentii meglio, mi riempiva la testa.

«Meddy fermati un attimo, sediamo a guardare le danzatrici, va bene?» volevo cercare di capire con calma da dove proveniva e cosa fosse.

«Va bene, ma lo spettacolo al teatro? Lo guardiamo?» mi sarebbero bastati solo un paio di minuti.

«Ma certo, inizia più tardi... mancherà  ancora un pochino, restiamo qui nel frattempo» le risposi accarezzandole i riccioli. Si voltò a guardare le danzatrici ed io la imitai, facendo scorrere lo sguardo ad ogni angolo e respirando a pieni polmoni.

«Che cosa stai facendo?» mi chiese lei un po’ perplessa, accorgendosi di quel che stavo facendo.

«Non lo senti questo particolare profumo?» Meddy mi imitò nell’annusare l’aria.

«No, non sento niente Cassy» mi rispose facendo spallucce e voltandosi nuovamente ad ammirare le danze. Eppure lo sentivo, questa volta leggermente più forte.

Fu proprio in quel momento, che lo notai.

Al centro della piazza avevano posizionato un piccolo rogo, dove le danzatrici vi volteggiavano intorno.

Al di là delle fiamme scorsi una figura che catturò la mia attenzione.

Mi alzai di scatto in piedi e strabuzzai gli occhi per guardarlo meglio, per visualizzare meglio la sua immagine attraverso le fiamme ed il blando fumo che procuravano.

Era un giovane uomo e indossava una delle maschere più belle che avevo realizzato.

Infatti la maschera era dorata, con rifiniture nere e rosse e con una piuma di struzzo anch’ella rossa, sulla cima. Non copriva interamente il viso, terminava all’altezza del naso e così lasciava scoperti quelli che mi sembrarono i lineamenti di un viso a dir poco perfetto.

Senza rendermene troppo conto, mi spostai fissandolo, per catturarne ulteriori dettagli. Era interamente vestito di nero, un particolare che non mi feci sfuggire. Nessuno utilizzava quel colore, non per una festa.

 Indossava un elegante farsetto che risaltava in maniera impeccabile le sue ampie spalle e le sue gambe accentuate appena da muscoletti sulle cosce, erano coperte da pantaloni di un tessuto che indubbiamente non era di scarsa qualità come quello che utilizzavano i contadini.

Doveva essere un forestiero, non vi era alcun dubbio.

Le ombre oscillavano leggiadre su un incarnato diafano che ricordava la luna piena. La luce delle fiamme fecero per un solo istante, brillare due piccoli occhi.

Nessuno sembrò notarlo, ma io non smettevo di togliergli lo sguardo di dosso e quel profumo, sì quel profumo doveva emanarlo la sua pelle di neve.

Anche lui sembrò notarmi ed a dire il vero, mi guardava già da prima, ne ero certa. Anzi, credo mi stesse seguendo con lo sguardo e me lo sentivo addosso, come un abito, per poi penetrarmi sottopelle.

Fino alle ossa. Sì, il suo guardarmi credo che fosse della stessa intensità di cui era sfoderato il mio.

Ed ero curiosa, fin troppo curiosa di poterlo ammirare sotto la luce, di potermi deliziare in maniera nitida con quella eterea visione. Ero talmente rapita che non mi accorsi di andare a sbattere contro una danzatrice, pestandole un piede.

«Ma sei impazzita?! Non puoi guardare dove cammini?» sbottò giustamente quella.

«Scusatemi io... non volevo» non sapevo cosa rispondere, troppo distratta.

Cercai con lo sguardo tra la gente il giovane misterioso, ma se ne era andato. Mi allontanai per cercarlo, ma niente, parve dissolto nel nulla.

All’improvviso sentii chiamare il mio nome alle spalle. Era Meddy.

«Dai andiamo, non mancherà molto!» la voce della mia sorellina mi riportò alla realtà. Dovevo badare a lei.

L’accompagnai verso il teatro, allo spettacolo per bambini. Nell’aria non sentivo il profumo che accompagnava quella figura eccelsa sul quale avevo posato gli occhi. Quindi mi arresi.

Davanti al portone dello stabile, un gruppetto di ragazzi stava scherzando fra loro.

«Scusate, ci fate passare?» chiesi cortesemente.

«Ma guarda guarda… pel di carota e il suo mostriciattolo qui tra noi umani» scherzò disgustosamente il più grande del gruppo.

«Te lo chiedo per favore, la mia sorellina vorrebbe vedere lo spettacolo» cercai di mantenere la calma.

«E a noi sai che cosa ce ne importa? tornatevene nella vostra tana» mi sentii umiliata da quelle parole e dalle risate dei suoi compagni, tanto che gli sputai in faccia.

«Maledetta!» imprecò lui alzando un braccio per colpirmi. Ma qualcosa glielo bloccò.

Era il giovane misterioso con la maschera dorata.

«Lasciami andare, imbecille» sbottò il ragazzo strattonando il braccio per liberarsi dalla ferma stretta dell'uomo.

Lo lasciò andare fissandolo intensamente negli occhi. Io rimasi immobile ad osservare la scena, proteggendo Meddy che si nascose dietro di me.

«Chi sei per fare il duro eh? un forestiero vero?» continuò il ragazzo, ma maschera d’oro non disse nulla, si limitava a fissarlo. Gli altri non ridevano più, rimasero in silenzio quasi come se il tempo si fosse fermato.

«Ragazzi, forza, andiamocene» ordinò infine il ragazzo ai suoi compagni, in un tono spento. Li vidi allontanarsi a passo lento, per poi scappare a gambe levate, come inseguiti da una mandria di cavalli imbizzarriti.

Mi voltai per ringraziare il giovane uomo, ma non c’era più. Meddy impaziente mi strattonò la gonna del vestito per incitarmi ad entrare nel teatro. La accontentai, ma non seguii per nulla lo spettacolo.

La mia mente era fissa sul giovane uomo, avrei voluto ringraziarlo. Tutto era accaduto così in fretta, che non ebbi nemmeno il tempo di guardarlo meglio in viso o negli occhi. O di sentire il suono delle sua voce.

In compenso ebbi una conferma, il profumo apparteneva proprio a lui ed era vaniglia. Sì, vaniglia.

Ciò mi riportò alla mente i sogni che di tanto in tanto facevo, su quel Cavaliere vampiro e la bambola. Mi tornò alla mente una scena specifica, ovvero il Cavaliere che trovò davanti al portone di un teatro, una facile preda da azzannare e così la bambola. C’erano delle similitudini quindi tra ciò che era successo e il mio sogno.

O erano semplici coincidenze? Se non lo fossero state, sarebbe stato un segno. Non erano solamente dei sogni partoriti dal frutto della mia mente, ma qualcosa di più. Qualcosa di inspiegabile, una sorta di avvertimento o presagio.

Avrei voluto uscire e correre a cercarlo, avere una conferma alle mie teorie. Mi imposi di calmarmi, di non pensarci troppo e di non farmi strane idee su quel che era accaduto e su ciò che avevo sognato, poiché in fondo, quasi nulla combaciava completamente. Solo alcune similitudini, la conseguenza di una buffa coincidenza e nulla più. Ma diciamolo, non ne ero del tutto convinta.

 Al termine dello spettacolo, io e Meddy decidemmo di passeggiare un po’, per un ultimo giro tra la festa prima di rincasare. Non potevamo andarci sole, ci sarebbe dovuto essere anche Kade.

Io mi guardai attorno, ma non vi era nessuna traccia di “maschera d’oro” e nemmeno del gruppetto di ragazzi arroganti, fortunatamente.

Sulla via del ritorno, incontrammo Kade da solo.

«Allora, com’è andata la serata con la tua bella?» scherzai io.

«Bene, ti ringrazio. Ma tu... tutto a posto? Sei strana» osservò lui, sebbene non capii a cosa si stesse riferendo.

«Io sto bene, dai che» mi bloccai. Alle sue spalle vidi passare il giovane misterioso. «Porta a casa Meddy, torno subito» gli ordinai congedandomi, per correre verso l’oggetto della mia curiosità.

Lo vidi passeggiare disinvolto tra le bancarelle, sotto lo sguardo attento di alcune ragazze, mie coetanee. Il solo fatto che osarono posargli gli occhi addosso, mi scatenò una certosina gelosia che mi fece urlare.

«Ehi voi!» me ne pentii quasi subito, tant’è che arrossii di colpo. Il giovane si voltò nella mia direzione fermandosi.

Quando mi avvicinai, fui travolta da una scarica d’energia inspiegabile che mi colpì dritta allo stomaco.

Il grigio dei suoi occhi era semplicemente disarmante. Sembravano due stelle di ghiaccio.

Restò immobile, ma sicuramente pensò che ero piuttosto strana e insulsa, col mio comportamento goffo e quasi isterico.

«Vi volevo solo ringraziare per prima. Sono degli stupidi» riuscii a dire finalmente.

Non mi rispose, si limitò a darmi un’altra breve occhiata, squadrandomi da cima a fondo ed infine, increspò le labbra nel cenno di un sorriso, prima di voltarsi e riprendere il suo cammino.

Tutti i passanti ci guardarono, facendomi sentire in imbarazzo. Non ebbi quindi il coraggio di aggiungere altro, facendo marcia indietro me ne tornai dai miei fratelli.

Per un attimo mi voltai a guardarlo allontanarsi.

Quelle spalle, quell'alone di mistero, quel viso e quei occhi.

Oh sì, un sogno.

 

 

 


Seconda parte: Gli elementi del diavolo

CAPITOLO 13

 

Il suo suono era martellante. Dalle lenzuola di flanella fece uscire stancamente la mano e spense quella fastidiosa presenza che la strappava dai sogni e auspicava ogni volta a mettere a dura prova i suoi nervi, la sveglia.

Era un nuovo giorno di fine ottobre per Kimberly Stanford. Si alzò dal letto e con la mente organizzò un elenco di cose da fare per la giornata, controllando il calendario appeso dall’altra parte della stanza. Dopo tre settimane era segnato il suo diciottesimo compleanno. Davanti allo specchio si spazzolò i lunghi capelli scuri color oro con qualche mèches blu notte che teneva in modo da formare una deliziosa trama quando li legava in una semplice treccia. Era una pettinatura ordinata e comoda, con una texture particolare che aveva sempre adorato, perché il blu faceva da cavallo di battaglia per ogni scelta che doveva compiere in oggetti, abiti e via dicendo. Il tutto creava un’armonia perfetta con i suoi occhi azzurri e pagliuzze verdi, sembrava quasi avesse intrappolato il mare nell’iride.

Dalla cucina salì l’urlo della madre. 

«Kim la colazione è pronta!» la ragazza si affacciò alla porta della stanza cercando di mantenere un tono calmo.

«Scendo subito mamma.» Infilò la divisa del suo liceo e completò la missione di risveglio indossando una spilla raffigurante uno scorpione, suo segno zodiacale.

Un’ultima occhiata davanti e lo specchio e si sentì pronta. Ma non solo. Ogni tanto restava paralizzata qualche secondo a contemplarsi il viso nello specchio, come se al risveglio non si riconoscesse mai. Così come non riconosceva quelle persone che chiamava famiglia. Ma non ci badò nemmeno quella mattina e si affrettò a scendere in cucina.

A tavola, abbondantemente apparecchiata, v’erano ad aspettarla sua madre ed il suo fratellino Alex.

Quest’ultimo chiese del padre.

«E’ già uscito al lavoro tesoro, non dimenticare di portare al parco Billy questo pomeriggio» lo avvertì la madre, riferendosi al maltese dal manto candido e morbido come un batufolo di cotone.

Kim spostò lo sguardo sulla tv.

«Ne parlano ancora?» chiese alla madre.

«Già, ormai sono due giorni che va avanti questa storia, al notiziario non fanno altro che discutere di quest’abbagliante luce sul porto nel cuore della notte. Io resto convinta si tratti di ufo.»

La ragazza fece una smorfia a quelle parole.

«Mamma ti prego! ufo! ma quando mai, non dirlo a nessuno mi raccomando, o ti prenderanno per pazza! una spiegazione logica ci dev’essere per forza.» Finì di consumare la colazione e uscì di casa in tutta fretta per recarsi a scuola, il tugurio , come sovente usava definirlo.

Percorse l’intero isolato, per raggiungere quello successivo, dove viveva la sua migliore amica, Joanna Pierce. Era una ragazza magrolina, coi capelli neri arruffati e il viso tempestato di lentiggini, compagna di giochi e di avventure di Kimberly da undici anni.

Salutò l’amica con la mano.

«Ehi Kim, ciao! oggi ci porta mia madre a scuola, tutto bene?»

«Ciao Jo, si sto bene, grazie. Sono solo ancora un po’ assonnata, stanotte ho dormito male» annuì Kim mentre l’amica la squadrava.

«Scommetto che hai avuto un altro dei tuoi strani incubi con l’acqua.» 

Kim abbassò lo sguardo.

«Già. Una cosa del genere. Sai sempre tutto tu Jo, ti basta uno sguardo per capirmi» esclamò facendola arrossire.

«Sì.. be’ siamo amiche da molto.. dai andiamo, mia madre è già in macchina che ci aspetta.»

Salirono nell’auto e dopo un breve scambio di saluti e convenevoli tra Kim e la madre di Jo, partirono alla volta della scuola, discutendo sugli ultimi avvenimenti del quartiere e del mondo, sulla condotta riprovevole di Alex con la madre di Kim che disperata, oramai non sapeva più che pesci pigliare con quel disobbediente diavoletto. Jo chiese come ultima cosa se l’amica fosse riuscita a terminare il compito di algebra che avevano assegnato per casa.

«E’ stato complicato, ma alla fine ne sono venuta a capo! poi in classe ti faccio vedere, non preoccuparti.» rispose Kim e silenziosamente la ringraziò voltandosi di scatto verso il finestrino, con lo sguardo perso nel vuoto e le lentiggini sfumate da un leggero rossore che a Kimberly parve inconsueto da parte della ragazza. Non era timida e non aveva motivo di imbarazzarsi per l’aiuto e la preoccupazione dell’amica. Ma non ci diede troppa importanza, probabilmente Jo aveva ben altri pensieri per la testa in quei giorni e di sicuro non erano legati all’algebra o all’aiuto gratuito che ci si scambia fra amiche.

Inoltre aveva ancora quel senso di smarrimento, di déjà vu provocatele dai sogni che la tormentavano.

Ma ad ogni modo, no, la sua amica del cuore aveva pensieri più profondi, sebbene Kim non se ne rendesse totalmente conto.

Arrivarono a destinazione, il loro liceo era uno stabile in decadenza ma ancora accogliente. Un giardino fiorito, curato dall’associazione verde della scuola. Un campo da football, dove i ragazzi più belli giocavano e venivano ammirati dalle ragazze più scatenate e dalle predatrici cheerleaders . Campi da tennis e di pallavolo sia maschili che femminili, aule speciali per corsi come cucito, cucina, arte. Insomma, un liceo a cui non mancava nulla nonostante l’avanzata età dell’edificio e la trascurata  manutenzione e interesse del preside Manford. Kimberly e Joanna si fecero strada tra la folla di studenti che andavano e venivano coi libri tra le braccia nel cortile e nell’ingresso, frementi come api che portano il miele all’alveare. I gruppetti di ragazzi erano già tutti ammassati a scambiarsi pettegolezzi e informazioni stuzzicanti su ciò che accadeva nel liceo. C’erano i bulletti, i nerd, le cheerleaders e così via.

Come in qualsiasi altra scuola, era normale che ci fossero questi gruppi che sembravano catalogare con etichette i ragazzi in base ai loro stili di vita, filosofia di pensiero, sport o classe sociale. E come ogni ragazza liceale che si rispetti, anche Kimberly aveva la sua acerrima nemica. Dafne Hoffman, la classica pettegola e rompiscatole che dà noia ad una comunissima ragazza, appartenente a nessun gruppo specifico di categorie, odiava particolarmente Kim, sebbene non avesse mai compreso il reale motivo di tanto astio. Ad accompagnare Dafne c’erano Liz e Wanda, due giovani tenniste. Jo fece una smorfia di dissenso.

«Stanno sempre lì in agguato quelle tre barbie, ma non hanno nulla da fare?» Kim alzò le spalle.

«Comportati come se nulla fosse, ignoriamole, magari oggi ci va bene e non ci dicono nulla» si sorprendeva ogni giorno a chiedersi perché mai doveva subirsi la fastidiosa presenza di tre ragazzine, quasi come se non si sentisse lei stessa una ragazza liceale, ma qualcun altro. Qualcos’altro.  Di certo, quella mattina si sentiva piuttosto strana, più del solito.

Continuarono a camminare disinvolte chiacchierando tranquillamente, quando sentirono la voce squillante di Dafne.

«Hey Joannina, non ti sei ancora lavata il muso da quelli schizzi di terra? e tu Berlyna sempre con quella parrucca in testa?» rise compiaciuta delle sue battute di gusto discutibile accompagnate dalle smorfie divertite delle sue compagne.

«Hey Dafneuccia, sempre con quella sirena in gola tu?!» esordì di getto Kim. La ragazza si congedò mandando a quel paese Kimberly e Joanna le diede uno strattone.

«Ma sei impazzita?! quella di sicuro si vendicherà! Le hai risposto a tono davanti a tutti!»

Kim sorrise divertita.  «Si ma hai visto che faccia ha fatto? ne è valsa decisamente la pena!»

Joanna scosse la testa. «Sì è stato divertente lo devo ammettere, ma resta comunque una cattiva idea, sai bene che è meglio evitarla altrimenti non finirà mai di scocciarci e prenderci in giro davanti a tutti!»

Kim le mise una mano sulla spalla. «Dai sta’ tranquilla, pensiamo ad algebra.. sta per suonare la campanella» ed entrarono in classe. L’ora di algebra sembrava non finire mai, come se il tempo restasse fuori dalla porta nell’esatto istante in cui tutti gli studenti entrarono nell’aula. Perlomeno questa era la sensazione percepita da Kimberly e Joanna, quest’ultima proprio non poteva soffrire quella materia e di tanto in tanto spiava gli appunti dell’amica.

Le ore successive scivolarono più velocemente, finché arrivò l’ora di pranzo e quindi la tanto agognata pausa. Le due amiche presero posto al tavolo, assieme ad altre compagne di classe. Nel vassoio di Kimberly c’erano le sue solite tre bottigliette d’acqua, Joanna la guardò con aria interrogativa.

«Io non capisco proprio come fai a bere tanto in una giornata! sono anni che me lo chiedo» sorrise.

«Ah non lo so! sento sempre il bisogno di bere, te l’ho già detto un mucchio di volte oramai! è quasi come se l’acqua per me fosse l’ossigeno che respiriamo, non so se mi spiego»

Joanna scosse il capo. «No a dire il vero no, per me rimane un mistero! comunque, senti Kim» il viso della ragazza si oscurò lievemente.

«Dimmi Joanna..»

«Stasera ti va di uscire? ho bisogno di parlarti ed è importante» chiese con tono malinconico che fece preoccupare Kim.

«Solito posto?» si riferiva ad un bar a due isolati dal loro quartiere dove erano solite andarci la domenica pomeriggio o di tanto in tanto quando avevano voglia di chiacchierare e sfogarsi. Per il divertimento sceglievano quasi sempre il bowling o qualche locale dove ci si poteva scatenare col ballo, tanto amato da Kimberly.

«No non lì, stavolta ti vorrei portare in un posticino più appartato e silenzioso. Fidati di me.. non è nemmeno molto distante.»

Con un rapido sorso Kimberly scolò l’ultima bottiglietta d’acqua.

«Va bene allora.. ma dimmi, si tratta di Phil.. giusto?»

Joanna si fece ancora più scura in viso. «Già.. dai finiamo qui e andiamocene» masticò l’ultimo pezzo di bistecca stopposa della mensa e prese in mano il vassoio.

Phil era il ragazzo di Joanna, erano fidanzati da circa un anno e mezzo, ma la loro storia sembrava una telenovela. Si erano presi e lasciati già due volte, perché Joanna si sentiva sempre troppo insicura, assalita da paure e dubbi che esternava a fatica e ci riusciva solamente con la sua migliore amica. Phil era sempre paziente e gentile, amava molto Jo e avrebbe perdonato qualsiasi suo comportamento o capriccio. Era un ragazzo come stanti, fisicamente tonico, capelli corti castani e un sorriso simpatico, di quelli che quando si incontrano, mettono in pace l’animo.  Era il classico tipo che ogni madre desidererebbe vedere accanto alla propria figlia.

Kimberly suppose che l’amica fosse nuovamente in crisi e pensava di lasciare una terza e forse definita volta il suo fidanzato, sebbene le parve oltremodo strana la decisione di appartarsi in un locale più silenzioso. Di solito a Joanna i luoghi pubblici con molta gente, voci e suoni, piacevano.

Mentre uscivano dalla mensa, continuava a interrogarsi su questo particolare e le tornarono alla mente una serie di episodi e di giornate trascorse con l’amica e il fidanzato in questione. In particolare si rammentò di un freddo pomeriggio di febbraio, in cui tutti e tre andarono a fare shopping. Joanna quel sabato si era letteralmente scatenata, fece spese folli e Phil senza nemmeno dire una parola di lamentela, si fece carico di tenerle le borse e i pacchi degli acquisti e manteneva stampato sul suo viso glabro, il suo abitudinale sorriso gentile. A Kimberly disse persino che sarebbe stato disposto a portare anche la sua borsetta contenente un paio di stivali che aveva acquistato in una delle tante boutique, ma lei gli rispose negativamente, provando disagio. Pensò che doveva avere un’infinita pazienza con Jo. Come se non bastasse, soffiava un forte vento e faceva ancora più freddo del solito tra i brevi inverni che caratterizzano San Francisco. Joanna indossava un capotto rosso, vestito lungo di lana color topo, calze nere e stivali rossi. A Phil quel colore proprio non piaceva, ma a Joanna non importava, altro segno che Phil era gentile e paziente, poiché secondo la logica di Kimberly, lui le avrebbe dovuto dire che il rosso non lo aggradava né le donava come tipo di tonalità. Kimberly invece era vestita di blu, come sempre. Di azzurro precisamente, la stessa tonalità dell’acqua.

Già, l’acqua, l’elemento che dà la vita, prezioso per ogni creatura. Kimberly si soffermò su quel ricordo, quando ad un certo punto della loro gita a suon di shopping, era talmente stanca di girare e il povero Phil-portatutto le faceva così pena, che non vedeva l’ora di sedersi da qualche parte e bere una cioccolata calda per rifocillarsi, ma Joanna non ne voleva assolutamente sapere ed era decisa a terminare i suoi acquisti e allora desiderò che piovesse. Espresse quel desiderio con tutta la forza che aveva, sentendo ogni singola molecola del suo corpo vibrare, la mente aprirsi in una sorta di spazio-tempo paralleli e il desiderio diventò formula.

Fai che piova, fai che piova, fai che piova.

Lo disse nella sua mente con maggiore intensità fino a che una goccia di pioggia le punzecchiò la guancia. Poi due. Un giorno solleticato da un timido sole, si trasformò in un pomeriggio di tempesta. Dal cielo scesero goccioloni d’acqua gelida, accompagnati da piccolissimi agglomerati di ghiaccio. I tre ragazzi corsero a rifugiarsi nel bar più vicino. Kimberly parve sconvolta e si sentì improvvisamente stanca, come se avesse scalato una montagna con uno zaino sulle spalle da duecento kili.  Joanna l’aiutò a sedersi, mentre Phil sistemò gli acquisti e ordinò bevande calde per tutti. Dopo pochi minuti il fenomeno cessò e i raggi del sole fecero nuovamente capolino tra le nuvole grigie cariche di quella rabbiosa tempesta. Fu un qualcosa di inspiegabile per tutti, soprattutto per Kimberly, che si domandò se fosse una coincidenza oppure qualcosa di più arcano, sebbene la logica imponeva a una insolita coincidenza, per l’appunto.

 

Kim tornò alla realtà, strattonata dall’amica che voleva salutarla. Ma era ancora distratta, da quell’episodio, uno fra i tanti, che vedeva protagoniste lei e l’acqua. C’era forse un qualche legame speciale tra lei e l’acqua? o tutto ciò che le capitava, erano solo coincidenze dettate da qualcosa in cui la logica ci arrivava a fatica, ma comunque ci poteva arrivare? decise di non far fare guerra ai neuroni per il momento, doveva andare a prendere al parco il fratello, tornare a casa per i compiti, farsi un bagno ed infine cenare velocemente per poi uscire ed incontrare l’amica.

Le cose da fare erano molte e il tempo si sa, quello è tiranno. Dopo aver salutato altre sue compagne di corso di algebra e di letteratura, uscì dalla scuola e si avviò verso il quartiere che portava al parco dove Alex era solito andare a giocare con Billy. Un grande parco sempre ben curato e pulito, dove vi era allestito  un angolo per tenere i cani e lasciarli liberi di correre e giocare, ed un altro angolo in cui vi erano disposte alcune giostre per bambini ed un chiosco di ciambelle e hot dog, per i quali il piccolo Alex andava matto. Aveva già dieci anni, ma per quei hot dog regrediva ad un bambino di due anni, tanta era la smania ed i capricci per poterli divorare.

Mentre camminava a passo svelto, Kimberly si ritrovò con la testa fra le nuvole ancora una volta, con quei pensieri sui suoi trascorsi avvenimenti riguardanti l’acqua. Ogni tanto le piaceva credere che fosse opera della magia. Che cos’è la magia? per lei era quasi una forza superiore, ma invisibile e impercettibile, un fastidioso sassolino nella scarpa della realtà, motivo di insulto alla logica. Ma la affascinava, moltissimo. Tant’è che di tanto in tanto si scopriva ad ammirare la vetrata di un negozio di articoli di alchimia, che si trovava proprio in quella strada. Era un quartiere tranquillo, con un piccolo negozietto di generi alimentari e altri negozi di souvenir per turisti, una farmacia e quel fulcro dell’anti-logica. Sì, la ragazza era profondamente ed inconsciamente affascinata, nonché attratta dal mondo della magia, dell’occulto, ma non lo voleva ammettere a se stessa perché in fondo aveva paura, sentiva paura per l’ignoto. Fu cresciuta con un’educazione basata sul concreto, il massimo di anormale a cui credevano i suoi genitori, erano gli alieni.

Quel giorno si sentì particolarmente attirata dal locale, come se una vocina nella sua testa le ordinava di avvicinarsi. E così fece. Nell’insegna sopra la porta d’entrata del negozio vi era scritto il nome Sibilla’s Eye. Come guidata da una forza misteriosa, aprì la porta ed entrò. Si guardò intorno incuriosita. Una tiepida luce illuminava debolmente l’interno, gli scafali erano puliti e ordinati in cui si poteva trovare praticamente di tutto. Dai vari oggetti d’alchimia, incensi, candele, libri sulla stregoneria, boccette e fiale per le pozioni, statuette raffiguranti la Dea e altri gadget della stessa, tovaglie e accessori per creare il personalissimo altare. Questo mondo per lei era del tutto nuovo, ma si sentiva emozionata poiché lo trovava bellissimo. Una donna le si avvicinò.

«Salve cara»  salutò questa. Era una signora alta, dai lunghissimi capelli argentati, indossava una tunica arancione e verde kaki. Sebbene dal portamento e dalla voce si capiva che era una donna matura, il viso fresco e gli occhi dal travolgente magnetismo, non lasciavo trapelare un’età definita.

Kimberly titubante ricambiò il saluto.  «Buongiorno.. è lei Sibilla? la proprietaria intendo»  la donna le sorrise amorevolmente, come una zia sorride ad una nipote.

«Certo cara, Sibilla è il nome che mi diedero alcuni wiccan della zona, ma in realtà il mio nome è Rhonda, piacere di conoscerti.. non  è la prima volta che ti vedo, sai.»

Kimberly trasalì. «Be’ in effetti ogni tanto, mentre passo di qui, do un’occhiata alla sua vetrina. Non so nemmeno io il perché, la cosa mi affascina ma non ho mai avuto il coraggio di avvicinarmi e oggi.. sono addirittura entrata.. volevo vedere com’era dentro e le faccio i miei complimenti, molto bello e soprattutto sembra essere interessante.»

La donna le prese le mani. «Stai tranquilla.. sono lieta ti piaccia, qui troverai qualsiasi cosa ti serva, qualsiasi risposta. Mai letto nulla sulla magia, vero?» Kimberly rifletté sul fatto che anni addietro svolse una sua ricerca personale sull’argomento in biblioteca.

«No, sinceramente nulla di serio» guardò le mani di Rhonda, ornate da lunghissime unghie.

«Evidentemente sei una strega naturale, non aspiri a diventare quel che si dice una wiccan, ovvero non ti soffermi su una filosofia vera e propria, ma ne sei attratta. Sei quel che si dice una strega naturale.»

Kimberly le lanciò un’occhiataccia. «Ma che sta dicendo? non sono mica una fattucchiera io! non mi interesso a questi abracadabra, ho solo detto che ne sono leggermente affascinata, così come ero affascinata da Babbo Natale quando ero bambina.»

Rhonda le strinse le mani. «E non ti chiedi il motivo? o meglio, non riesci a trovare una ragione plausibile a questo? suvvia mia cara, non mentire a te stessa. Tu sei attratta dal mondo della magia perché nel tuo cuore sei una strega. Io lo vedo, lo sento, hai un’aura potentissima e un’energia dentro di te che non ho mai percepito in nessun seguace di religioni celtiche, in shamani o in altre streghe. Sembri quasi unica, solo che tu non lo sai ancora.. sarai capace di grandi imprese, te lo leggo negli occhi.»

Kimberly si liberò bruscamente dalla presa. «Non ho mai pensato di poter essere una strega! tutto questo mi sembra così assurdo.. e lei mi fa paura» si voltò e fece per uscire, ma la donna tentò di bloccarla.

«Ora sei confusa mia cara, ma tornerai.. io lo so, tornerai.. l’accettazione è lunga e difficile, ma imparerai.»

La ragazza uscì dal negozio sbattendo la porta e correndo verso la fine del quartiere.

Si chiese se Rhonda avesse ragione. Se fosse davvero una strega? avrebbe trovato spiegazione in molte cose in cui non vi era arrivata ragionandoci. Sarebbe stato comodo credere, di essere una vera e propria strega. Si sentiva combattuta, confusa e odiava se stessa per esser entrata in quel posto lugubre con quella pazza vestita da pagliaccio ambulante.

Arrivò finalmente al parco, dove c’era Alex seduto ad una panchina con l’amato hot dog tra le mani e Billy che rincorreva uno scoiattolo. Kimberly si sedette vicino al fratello.

«Sei in ritardo Kimardataria, anche stavolta!» l’ammonì lui.

«Mi dispiace, mi sono fermata in un posto e ho perso la cognizione del tempo, la prossima volta farò il possibile per essere puntuale, ma guai a te se mi chiami un’altra volta Kimardataria, lo sai bene con lo sopporto!» il fratello le puntò contro il dito. «Te lo meriti, sei una ritardataria cronica! comunque non fa nulla, ho avuto più tempo per giocare e finire il mio hotty doggy.»

Kimberly si alzò. «Bene allora, su forza andiamo a casa.. Billy dai bello, si parte» il cane scodinzolando corse verso i fratelli e si fece prendere in braccio da Alex. Quando era ancora un cucciolo, il povero Billy cadde dalle scale mentre giocava col bimbo, inciampò su alcuni giocattoli sparsi per gli scalini di casa con la conseguenza di una lieve, e fortunatamente non grave, distorsione alla zampa posteriore destra. Così Billy non poté correre o camminare troppo a lungo, si stancava troppo, oppure la zampa si atrofizzava per una manciata di minuti.

Tornati a casa, la madre annunciò che la cena sarebbe stata servita non appena il padre fosse rincasato. Alex andò a spazzolare il manto del suo compagno di giochi, mentre Kimberly si chiuse nella sua stanza, intenta a finire al più presto i compiti di scuola. Iniziò con gli esercizi di algebra e di filosofia, per poi copiare alcuni appunti di biologia e chimica.

Guardò l’ora, erano le 18.30 relativamente presto, considerando che aveva due ore e mezza a disposizione per terminare, farsi una doccia e cenare per poi uscire con l’amica. Per un attimo ripensò a lei, per tutta la mattinata era strana, sembrava quasi che la sua presenza la imbarazzasse, la turbasse. Kim era decisamente curiosa di scoprire cosa le avesse da confessare Joanna.

Successivamente, riempì la vasca di acqua calda e sali profumati e vi si immerse. Ogni volta che si faceva il bagno si sentiva completamente in pace col mondo, l’acqua le avvolgeva il corpo con una mistica dolcezza, sembrava che tutti i problemi fossero spazzati via con delicato strappo. Percepiva forza impossessarsi dei suoi muscoli e delle sue membra,  si sentiva completamente rigenerarsi sia dentro che fuori. Fissò la vasca, quell’elemento la chiamava, le sussurrava parole da lei incomprese, ma che sembravano quasi lusinghe. Con le mani, accarezzava la superfice tenendo lo sguardo fisso, la mente libera da ogni pensiero ed emozione, le dita che impercettibilmente sfioravano la superficie dell’acqua nella vasca e poi alzò le mani formando un piccolo scorpione in 3d con l’acqua stessa. Lo plasmava come fosse creta e stesse creando una scultura. Fece cadere le braccia, la statuetta d’acqua dello scorpione si infranse e Kimberly scosse la testa, come se si fosse appena svegliata dopo un lungo sonno.

Cos’era successo? era forse un’allucinazione quella? si sentì assonnata, probabilmente era la stanchezza che le aveva giocato uno spiacevole scherzetto. Si alzò e si asciugò di fretta, la cena l’avrebbe maggiormente rinvigorita.

A cena come primo piatto la signora Stanford servì lasagne, un piatto riportato dalle sue lontane origini italiane, nonché prelibatezza preferita di Kimberly. Semplicemente da quel piatto, capì che non solo si sarebbe data una svegliata, ma si sarebbe totalmente ricaricata.

A tavola la sua famiglia era solita raccontarsi gli avvenimenti della giornata, come fanno quasi tutti del resto. La madre raccontò di come fosse piagnucolona e saccente una cliente di Beauty not trips, il salone di bellezza in cui iniziò a lavorare dopo qualche anno dalla nascita di Alex. Lui raccontò un episodio che vedevano coinvolti altri suoi due amici e di come avevano messo al loro posto uno dei tanti bulletti della scuola che frequentava, un ragazzotto dal fisico rotondo e possente che prendeva a pugni gli altri bambini solamente per nascondere la sua vigliaccheria e paura di non esser accettato, con una maschera da super macho dei poveri. Il guaio per lui fu che Alex e la sua mini banda di monelli erano senza macchia e senza paura, un po’ come i tre moschettieri. 

Il padre invece descrisse  una noiosa giornata di lavoro in ufficio, impiego da contabile in una grossa azienda. Infine fu il turno di Kimberly che non aveva gran che da dire, se non che Dafne aveva ricevuto da parte sua una controbattuta che le parve in quel momento geniale e successivamente giustificò il ritardo all’arrivo dell’appuntamento con Alex al parco, dicendo che si era fermata con qualche amica davanti ad un negozietto di scarpe, in cui erano iniziati appetitosi saldi e le proponevano di andarci appena ne avessero avuto il tempo. Dire di esser entrata nel Sibilla’s Eye non le sembrava assolutamente una buona idea, sua madre avrebbe fatto immancabilmente un commento sarcastico e di cattivo gusto, mentre il padre l’avrebbe rimproverata per esser entrata in un negozio tanto macabro e quindi di non aver rispettato un impegno già pattuito col fratello, per perdere tempo dietro a simili inutili sciocchezze. La predica da parte dei genitori insomma, sarebbe stata eterna ed estenuante, cosa che non le serviva quella sera per mantenersi in forze da una spossatezza che non vedeva l’ora di impossessarla completamente e trascinarla nella comodità del suo letto. Ma lei doveva rimanere perfettamente lucida per ascoltare la sua migliore amica e tenere i neuroni allenati a finche potesse ricordare le solite frasi di circostanza che le diceva ogni volta che si sentiva in crisi e aveva dei dubbi sul suo ragazzo, quindi doveva essere attiva per poter sperperare ottimi consigli da dare per risollevarla dall’oblio delle sue paure.

Si alzò da tavola e salì nella sua stanza per prepararsi. Dopo pochi minuti era già davanti a casa di Joanna, che l’aspettava impaziente. Si era vestita elegantemente, con un abitino lungo lilla tenue ed uno scialle bianco. Sembrava dovesse andare ad una cena da gran galà, più che a un appuntamento di sfogo con la sua migliore amica. Si scambiarono brevi battute fino a che calò tra loro il silenzio. Era assordante e imbarazzante, Kimberly si sentì improvvisamente a disagio, senza nemmeno conoscerne la ragione. Poco dopo arrivarono nel luogo indicato da Joanna, effettivamente non era molto distante dal bar che frequentavano abitualmente e Kim lo aveva già visto da lontano, quel romantico ristorantino. Entrarono e si diressero verso una stanzetta già prenotata nascosta da tende rosse damascate, uno di quei salottini riservati alle coppiette. La faccenda si faceva sempre più ignota e complessa, ma curiosa. Joanna ordinò due Martini .

«Come hai già capito ti voglio parlare di Phil» esordì finalmente mentre Kim immaginava dove volesse andare a parare.

«Ho già capito cosa mi vuoi dire Jo e secondo me, a questo punto dovresti chiudere la storia con lui, non ti sta facendo bene.»

Joanna abbassò lo sguardo sul tavolino nero. «Hai ragione, lo so perfettamente.. questa volta infatti ho deciso, lo lascio.. domani mattina stessa ho intenzione di dirglielo.»

Kim si sentì per un attimo smarrita. «Quindi tra voi è finita e già lo avevi deciso? e allora scusa, perché tutto questo? voglio dire, me lo potevi dire oggi a pranzo e ne avremo parlato» si interruppe, il cameriere portò i loro Martini e Joanna prese l’oliva con lo stuzzicadenti, portandosela fra le labbra mantenendo fisso lo sguardo verso Kimberly, con una luce calda negli occhi. Kim riprese il discorso. «Dicevo, ti vedo e ti sento misteriosa.. non lo so nemmeno io di preciso.. sei strana Jo, mi potevi dire subito cosa ti passava per la mente.. a me dispiace che non vuoi più stare con Phil, ma effettivamente tra voi è sempre stato molto complicato e questo lo capisco.»

Joanna ingoiò l’oliva dopo averci giocato seduttivamente con le labbra . «Ma non è questa la ragione.. del mio turbamento intendo» il suo comportamento enigmatico cominciava a stare antipatico a Kimberly.

«E allora che ti prende?»

Joanna iniziò finalmente ad aprirsi. «Vedi Kimmy, il fatto è che io non ho mai amato completamente Phil, per questo continuavo ad avere dei dubbi e delle assurde paure sulla nostra storia.. poi un giorno tutto mi è stato più chiaro, ho capito cosa volevo e chi volevo.. una persona che mi è sempre stata accanto e con la quale ho condiviso momenti unici che non potrò mai dimenticare.»

Kimberly fu percossa da una strana sensazione lungo la schiena, mentre cercò di ricordare i pochi ragazzi che aveva frequentato l’amica. «E chi sarebbe? non hai avuto molti ragazzi» esclamò infine. Joanna posò una mano sulla coscia di Kim. «Ma non è un maschio difatti.. sto parlando di te.»

La ragazza trasalì mentre il cuore le batteva in petto come il motore di una locomotiva. «Io? Ma che stai dicendo Jo, l’oliva ti è andata di traverso per caso?» le si avvicinò lentamente, il viso distante da quello di Kimberly di pochi centimetri, gli occhi fissi sulle iridi marine.

«Sono sicura che te lo ricordi anche tu» si riferiva ad un episodio avvenuto molti anni prima, quando avevano all’incirca undici o dodici anni, in vacanza in Florida con le loro rispettive famiglie.

«E’ vero sì, me lo ricordo bene.. ma è successo una volta sola! è stato solo un caso, una stupidaggine che abbiamo commesso perché eravamo piccole, incoscienti e confuse.. e curiose» non riusciva a muovere un muscolo, si sentiva completamente paralizzata e rapita dallo sguardo eccitato di Joanna che le posò un dito sulle labbra. «Shhh.. ricordo bene quanto ti piaceva che ti toccassi, per cui non aggiungere altro.. Kimmy»  tolse il dito per scambiarlo con le sue labbra e baciò delicatamente Kimberly. Non riuscì a scostarsi, chiuse gli occhi abbandonata a vecchie sensazioni, mentre Joanna iniziò a baciarla con estrema dolcezza, facendo danzare le labbra con le sue, in tenera armonia. Una mano di Joanna sbottonava la camicetta di Kim che sentiva il cuore esplodere in una miriade di sensazioni, trascinandola in un baratro, mentre l’altra sembrava un musicista che accarezza con artistica abilità le corde di un’arpa. L’altra mano entrò in sordina tra le grazie della ragazza in preda a brividi impetuosi, ma bloccò di scatto il polso dell’amica, con un gesto guidato dall’istinto più che dal volere vero e proprio.

«Fermati.. non posso» a quelle parole Joanna si scostò appena. «Non puoi o non vuoi?»

Kim si ricompose e abbottonò la camicetta. «Non posso né tantomeno voglio, a me piacciono i ragazzi Joanna. Praticamente da sempre, sono attratta solo da loro, quello che era successo con te non fu altro che un errore madornale! lo capisci? anche perché io poi ho avuto..» spazientita la bloccò. «Max! si lo so che poi hai avuto Max e te ne sei innamorata!  ami lui e vuoi solo lui, ma la devi smettere Kimberly! non puoi andare avanti così, sono anni che ti ha lasciata, devi fartene una ragione! quante volte te lo devo ripetere ancora? dimenticatelo una volta per tutte!» ma la ragazza s’infiammò .

«Ora sei tu che dai consigli a me? dovrei anche dimenticarlo e andare avanti, lo so bene, ma se mai ciò dovesse accadere, non sarà di sicuro con te Joanna! ma con un ragazzo, un maschio! siamo intese? e non parlare più di Max, ti prego»  si porse le mani sul viso e una lacrima debolmente scese, conteneva così tanto dolore che avrebbe potuto scioglierle la carne.

Maxwell Rendel era stato il primo ed unico vero amore di Kimberly. Dopo quattro anni di fidanzamento la lasciò per un’altra, Rebecca Watson, un nome che non avrebbe dimenticato mai e che giurò a se stessa che nella sua vita, qualsiasi cosa fosse accaduta, gliela avrebbe fatta pagare in qualche modo. Aveva conosciuto Max alla festa di diploma del fratello Michael, amico di Albert Stanford, cugino di Kimberly. Michael aveva invitato Albert e la sorellina Lana che aveva la stessa età della giovane e siccome ogni tanto dormiva a casa loro, la sera della festa fu una di quelle occasioni e così Kim si trovò imbucata, ma ben accolta. Fece amicizia sin da subito con Max e scoprirono di avere molte cose in comune, fino a che si presero una cotta l’uno per l’altra e vissero quella che sembrava una storia d’amore narrata nelle favole, due adolescenti perdutamente innamorati e destinati ad una vita insieme,  con una bella casa e tanti bei bambini, una famigliola felice da spot televisivo. Invece un giorno di fine estate, proprio mentre stava per iniziare la scuola, Max tornò da una lunga vacanza con la famiglia portando con sé una brutta notizia: aveva conosciuto Rebecca e perse la testa.

Pure Kim perse la testa, ma di rabbia e di dolore. Il mondo le crollò sulle fragili spalle di un’adolescente alle prime tappe dell’amore. Sconfitta e tradita per mano di una brunetta newyorkese, dal sorriso sintetico e gli occhi vispi di una lince pronta ad attaccare la preda. Un tipetto tutto pepe che non si poteva far altro che odiare, ma a quanto pare Max non fu di questo parere. Annunciò alla povera Kimberly che tra loro era finita e che Rebecca lo aveva in qualche modo cambiato e coi suoi modi da sexy lince lo fece innamorare.

Kimberly distrutta da quella storia, non riuscì a superarla. Non ebbe altri amori dopo quello, non poteva concepire di potersi fidanzare con un altro ragazzo da lì a poco, preferiva trovare quello che avesse la capacità di farla sognare più voracemente di come non fosse riuscito a fare Max, con le sue dolci parole mai espresse e promesse tantomeno mantenute. Kim sognava l’uomo perfetto, quello che l’avrebbe salvata da quel circolo vizioso. Sarebbe mai arrivato questo prode cavaliere? Finì col smettere di porsi il quesito e di concentrarsi unicamente sulla sua vita e sull’amica Joanna che ora era lì, di fronte a lei, il corpo fremente di eccitazione e il cuore pronto a cadere in frantumi, proprio come il suo.

Joanna si ricompose e bevve in un sorso il Martini.

«Sono stata una povera scema, mi dispiace.»

Kimberly la prese per mano. «Dispiace a me ferirti, non farei mai del male alla mia migliore amica! non mi sognerei nemmeno di spezzarle il cuore! ma cerca di capire, questa situazione che è venuta a crearsi è.. assurda.. non potremmo mai stare insieme ma non voglio nemmeno rovinare la nostra amicizia! per te sarà una cotta passeggera o non so..»

Joanna si alzò. «No, tu non puoi capire.. scusa ancora per il tempo che ti ho fatto perdere stasera. Ciao» si congedò scostando la tenda e svanendo tra i camerieri che scivolavano tra i tavoli come atleti in una gara di scii agonistico. Kimberly rimase impietrita al suo posto, perché doveva capitarle proprio a lei? ci teneva molto a Joanna, ma non così tanto da potersene innamorare, proprio perché era una ragazza e il rammarico degli errori passati non poteva rovinare quella che era una stupenda amicizia. Provava frustrazione, rabbia, confusione, voleva solo andare a casa e voltare pagina su quella bizzarra giornata, spegnere i pensieri come fossero un incendio, ricominciare da capo con la facilità di bere un bicchiere d’acqua.

O di Martini.

Non si accorse di tenere il bicchiere tra le mani e ad un certo punto, nel bel mezzo della concentrazione delle sue riflessioni, il bicchiere scoppiò in frantumi ferendole il palmo delle mani. Incredula e ancor più confusa, si guardò intorno e poi le mani che cominciavano a perdere piccole stille di sangue.

Si alzò e corse verso l’uscita.

Tornata a casa si disinfettò le mani e si mise a letto, ripercorse la chiacchierata con Joanna, il momento in cui le sue mani la profanarono una seconda volta e a quel pensiero rabbrividì disgustata, non era quello che voleva dall’amica.

Il giorno dopo si sentiva strana, aveva un peso nel cuore e doveva liberarlo, aveva bisogno di parlare e di confrontarsi con Jo, ma a casa sua non vi era lei ad aspettarla come sempre, la madre le disse che era andata a scuola col fratello maggiore.

In classe non la degnò di uno sguardo, fu come l’avesse cancellata dalla sua vita, come se non fosse mai esistita. Le passò affianco per un momento, ma Kimberly si sentì invisibile. Aveva ferito Joanna più di quanto non s’aspettasse e la cosa la tormentava. Aveva perso la sua migliore amica.

 

 

CAPITOLO 14

 

Passarono due giorni dalla sera in cui Joanna si era dichiarata a Kimberly e ancora non accennava a voler rivolgerle la parola, mentre l’amica stava morendo dentro. Prima Max ed ora Jo, le persone che amava più di se stessa oramai le aveva perdute, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter chiarire la questione con l’unica persona che in tanti anni l’aveva totalmente compresa e con la quale si sentiva in completa sintonia. Ma Kimberly cominciò a mettersi il cuore in pace, dopo vari tentativi di comunicare con Joanna, decise di gettare momentaneamente la spugna e di attendere che fosse lei stessa a fare il primo passo, a capire che nonostante tutto, potevano ancora essere amiche come prima o forse anche un po’ di più, poiché le aveva confessato un segreto, un peso enorme che si portava dentro e ogni tanto trapelava dal suo sguardo. No, condividere questa cosa non è facile per nessuno. Si disse Kimberly.

Quella sera toccava a lei lavare i piatti dopo cena, indossando guanti di lattice cominciò a strofinare le prime pentole, fissando la schiuma che danzava leggiadra nel lavandino. La sua mente era distratta, ripensava agli ultimi eventi della giornata e si chiedeva se al suo compleanno, avrebbe potuto invitare Joanna, se fosse stata una buona occasione per avvicinarla, sebbene si fosse imposta di aspettare. Poi si accorse che l’acqua nel lavandino stava bollendo, la schiuma si era fatta più fitta e l’acqua molto calda accompagnata da piccole esplosioni seguite dal classico blob che attirò la madre in cucina.

«Ma che stai facendo? che ci hai messo qui dentr..ahi!» chiese alla figlia poco prima di immergere un dito nell’acqua e scottarsi. Il dito le divenne violaceo in un istante, Kimberly alzò lo sguardo perso nel vuoto verso la madre.

«Io.. nulla, non c’ho messo nulla nel lavandino» intanto la signora Stanford si avvolse con uno strofinaccio il dito.

«Ma l’acqua è bollente! non vedi qua che roba? vado a mettermi della pomata.. santo cielo se fa male!»

La ragazza si tolse un guanto e mise la mano in acqua, ma questa era fredda. Non si spiegava come la madre avesse potuto scottarsi se non aveva messo nessun apparecchio elettronico né aveva usato acqua bollente per lavare le stoviglie. Per un attimo si chiese se fossero stati i suoi pensieri a surriscaldare il liquido, ma subito scacciò quell’idea assurda.

 

Il giorno dopo si fece accompagnare dal padre a scuola. Lo salutò con un bacio, un’abitudine che non aveva mai perduto e che al padre faceva sempre un enorme piacere poiché per lui la figlia restava pur sempre una bambina piccola da coccolare e viziare e quel bacio era un vizio che non avrebbero entrambi mai voluto togliersi.

Entrò in aula di biologia e prese posto accanto a Brianna Warren, una ragazza molto socievole e gradevole, ma che puzzava costantemente di fumo e formaggio fuso. Scelse Brianna perché non le parve il caso di sedersi accanto a Jo, anche se avevano studiato assieme, la cosa l’avrebbe messa in forte disagio e molto probabilmente l’altra non l’avrebbe degnata nemmeno di uno sguardo, almeno questo prevedeva. Appoggiò gli appunti scritti qualche giorno prima e poi spostò lo sguardo verso la porta, come se i suoi occhi fossero una calamita e l’uscio fosse ferro e vi era un motivo valido.

Una presenza scura si era affacciata all’entrata dell’aula.

La figura di un ragazzo che lei non aveva mai visto. Dall’aspetto sembrava piuttosto inquietante. Kimberly si girò verso la sua compagna di banco.

«Ehi, ma quello chi è? è arrivato oggi?»

Brianna la guardò con aria interrogativa. «Che ti sei fatta a colazione? è sempre stato nella nostra scuola! anzi, nelle nostre stesse lezioni!»

Kim non riusciva a capire. Si chiedeva se fosse proprio la compagna ad aver fumato qualcosa di stupefacente quella mattina, perché non ricordava assolutamente di aver mai visto quel tipo in vita sua, doveva per forza essere un nuovo studente.

Si girò nuovamente verso Brianna. «Senti io ti assicuro che non l’ho mai visto! non me lo ricordo minimamente e non sono né pazza né stupida, dunque se lo conosci dimmi come si chiama?» esclamò irritata.

La compagna fece spallucce. «Non sono stupida nemmeno io, si chiama Justin.. ciao Justin» salutò con un largo sorriso il ragazzo che in quel momento stava passando accanto a loro, ma lui ricambiò con uno sguardo truce e si voltò dall’altra parte, non degnando di parola le due ragazze. Scivolò su un banco silenziosamente, come un’ombra. Kimberly sentì sulla pelle una sensazione strana e pericolosa, ma quasi impercettibile. Lo aveva seguito con lo sguardo, ma poi si ricompose.

«Che antipatico!» esclamò infine.

«Sarà.. però devi ammetterlo, è proprio un bel pezzo di ragazzo!» ribatté Brianna.

«Devo ammetterlo.. bello è bello.. ha un fascino misterioso, ma continuo a non ricordarmelo!»

Brianna si spazientì. «E suvvia Kim piantala, fatti un caffè e svegliati che oggi mi sembri seriamente intontita»

A Kimberly non piacque quell’affermazione e si limitò a sfogliare le pagine del libro di biologia per prepararsi alla lezione.

Di tanto in tanto durante le lezioni si voltava a scrutare quel personaggio misterioso che era piombato lì da chissà dove. Justin aveva l’incarnato diafano e delicato, gli occhi piccoli di un nero profondo che richiamavano la notte più tetra che il mondo avesse mai conosciuto, le labbra sottili fotografate da un ghigno di sfida, i capelli molto corti corvini, con una piccola ciocca platino su un ciuffo ordinato. La sua bellezza era disarmante, la ragazza non fece a meno di notarlo e di rimanerne colpita, il carisma e il fascino accompagnato da una dolce carica erotica rendevano il ragazzo semplicemente irresistibile.

Si ritrovò a chiedersi se era fidanzato, ma a lei che cavolo importava? La figura di Justin era imponente e austera, sicuramente aveva un carattere impenetrabile e difficile, non era tipo da essere accasato, pensò Kimberly. Indossava una maglietta bordeaux sotto ad un lungo cardigan nero, ornamentato di borchie e lacci, pantaloni neri con grosse tasche dai bottoni a spilloni e scarpe lucide, rigorosamente nere. Al dito portava un anello di platino con un’incastonatura a forma di teschio con sotto un pugnale, sul viso invece, troneggiava un piercing sul sopracciglio destro e un altro sull’elice sinistro. Gli conferivano un’aria ancor più macabra secondo il gusto di Kim, ma in fondo non li considerava brutti o volgari su di lui.

Durante il pranzo in mensa, Justin avanzò con passo fiero verso il tavolo di Kimberly e lo superò, andando a sedersi in un angolino in completa solitudine. Venne colta da un’improvvisa curiosità di andare a parlarci e chiedergli come mai non si ricordava di lui, da dove venisse veramente, ma si bloccò. Decise che per il momento era meglio tenerlo d’occhio e comprese che fu una saggia decisione poiché tutte le ragazze che si avvicinavano a lui come mosche sulla schiena di un cavallo, venivano liquidate con cattiveria sprezzante.

Pensò che l’antipatia non gli mancava affatto, trattare le ragazze in quel modo non aveva senso né scopo.

A lezioni terminate Kimberly uscì da scuola e mentre scendeva i gradini che portavano al giardinetto d’ingresso, vide di spalle Justin.

Notarlo non era difficile dal momento che si era coperto con guanti, foulard e un ampio cappello in tinta con l’abbigliamento. Kimberly pensò che doveva soffrire parecchio il freddo.

Non se la sentiva di tornare a casa a bocca asciutta, era troppo curiosa di scoprire la verità circa quel ragazzo e così strinse i pugni, si fece carico di tutto il coraggio che aveva e gli si avvicinò di corsa.

«Ehi Ju..Justin! aspetta!» chiamò per attirare la sua attenzione.

Il ragazzo si volse con un movimento delicato e la guardò alzando un sopracciglio. «Che vuoi pure tu? non sai che fissare la gente e poi seguirla è da maleducati?»

Kimberly restò impietrita. «Ma io.. io mica ti.. oh senti! non mi parlare con quel tono prepotente»

Justin si congelò. «Non ho tempo da perdere con le ragazzine, io.»

Kim fece una smorfia. «Ma senti.. tu cosa ti credi di essere, un cinquantenne?!»

Justin si morse lievemente il labbro inferiore. «Mh..no» borbottò.

«Da dove vieni?» chieste di punto in bianco la ragazza e quella domanda fu talmente inaspettata per lui che il suo volto austero divenne sinceramente sorpreso.

«Che stai dicendo?! lo sai bene.. siamo compagni di classe da sempre, no? bah!» rispose schivo.

Kimberly mise le mani sui fianchi. «Si certo come no! io però non ti ricordo assolutamente, com’è questa storia eh? vieni di sicuro da un’altra scuola e stai prendendo tutti in giro, questo non riesco a capirlo!»

Justin prese a fissarla dritto negli occhi e quasi in un sussurro affermò. «Non c’è niente da capire, se soffri di vuoti di memoria non è un mio problema» si voltò di scatto e a passo svelto si diresse verso l’uscita.

Kimberly se ne restò sul gradino a guardarlo andare via. Insistere sulla questione sarebbe stato inutile, non accennava a sbottonarsi ma prima o poi avrebbe svelato questo mistero. Chi era veramente Justin?

 

Il vero nome di Justin era Arum ed era un vampiro. Un capo clan precisamente. Justin era il nome che usava come copertura per non farsi riconoscere da altri vampiri di minore livello o da streghe e affini e soprattutto per non destare sospetti e domande scomode fra i mortali. Era deceduto all’età di diciannove anni, apparentemente durante una rivolta civile, duemila trecentocinquanta anni prima.

Era relativamente giovane rispetto agli altri vampiri, ma il suo carisma, il suo carattere spavaldo e deciso, ma onesto, permisero che venisse nominato ben presto capo clan di un gruppo di guerrieri vampiri occasionalmente mercenari, nel caso servisse a fargli guadagnare qualcosa di speciale. Le sfide lo eccitavano parecchio. Accettava qualsiasi tipo di missione e ora ne aveva tra le mani una bella grossa, che lo riguardavano in prima persona ed il primo step per il suo compimento era proprio quello di infiltrarsi nel liceo di Kimberly.

Non era dunque un caso che si trovasse lì.

Nella sua lunga vita, se così si può definire, Arum ne aveva passate tante, aveva assistito alla morte dei genitori, bruciati in un rogo perché considerati demoni dal momento che vennero visti in compagnia del figlio morto, ma ancora in piedi e in salute. I suoi genitori furono tra i pochi umani che conobbero l’identità di vampiro di Arum. Vide amici morire per vecchiaia, così come i suoi amori. Perse il conto di quante donne aveva avuto nella sua lunga carriera di latin lover tenebroso, quante ne aveva conquistate con un solo sguardo, quante ne aveva soddisfatte con un bacio, in quante aveva sentito il cuore battere per lui.

Quante donne aveva amato veramente? non molte in realtà.

Si era innamorato solamente tre volte, di cui una perdutamente e l’aveva addirittura presa in moglie. L’amò con tutto se stesso, avrebbe fatto qualsiasi cosa per Cassandra, quella creatura dai lunghi capelli rossi e gli occhi da cerbiatta, ma purtroppo morì prematuramente.

Arum fu restio a tramutarla in vampiro, poiché la considerava una condanna troppo crudele per una donna così speciale, non avrebbe voluto che soffrisse, ma lei era fin troppo convinta e non la vedeva come una condanna, bensì come un dono.

Si sposarono quando lei aveva sedici anni e compiuti i diciannove, avrebbero intrapreso il grande passo.

L’atto finale dell’inizio del loro grande amore.

I piani di Arum e Cassandra presero una piega negativa nel momento in cui Zetesis, acerrimo nemico di Arum, lo trovò e gli dichiarò ancora una volta guerra. Durante un ferocissimo scontro, i seguaci di Zetesis rapirono Cassandra e la legarono ad una croce nella cima della più alta collina del territorio di Arum.

Zetesis la uccise tagliandole lo stomaco sotto gli occhi impotenti del vampiro, che non arrivò in tempo per salvarla, ostacolato dall’orda di servi del nemico. Da quel giorno qualcosa dentro il cuore di Arum si spezzò ed oltre a giurare a se stesso che si sarebbe vendicato uccidendo Zetesis, fece la promessa di non amare nessun’altra donna.

In fondo non poteva, Cassandra era tutto ciò che gli era rimasto, l’unica ragione per sopportare l’eternità e da quel momento cadde nell’oblio.

Fare la parte del liceale questa volta era seccante, soprattutto con una scocciatura come quella Stanford. A meno che non fosse utile a qualcosa, era una spina nel fianco da non sottovalutare. Arrivò ai piedi del palazzo in cui affittò un appartamento coi suoi due collaboratori più fidati, Zell e Gidan. Entrò nell’ascensore del palazzo stancamente, pigiò il bottone dell’ultimo piano e attese la fine della salita.

Aprì la porta dell’appartamento e vi entrò, i suoi diletti erano lì ad aspettarlo. Nonostante erano loro servi, gli piaceva considerarli amici.

Dava loro motivo per non ribellarsi, il solito discorso sulla fiducia e la prudenza.

Zell fu il primo ad unirsi al clan di Arum, vampiro da duemilaseicentoottanta anni ed era un tipo taciturno e sempre pronto all’azione. Indossava una giacca in pelle che a quanto pare, prese come trofeo dall’uccisione di un suo rivale. Alle orecchie portava orecchini a pendolo di platino a forma del pianeta Saturno. I capelli scuri a spazzola, gli occhi grandi e di un intenso blu notte, la pelle diafana, l’espressione impassibile. Era abile con la spada, teneva sempre appesa alla grossa cintura dei pantaloni, una fodera contenente un’elegante katana, dal manico elaborato.

Gidan invece era un vampiro da appena quattrocento anni ed era quel che si dice un mutaforma. Chiaramente non era come si vede nei film, non poteva mutare il suo aspetto fisicamente, ma poteva farlo psichicamente a suo piacimento creando un’illusione agli occhi del suo avversario.

Ossia, aveva il potere di fare in modo che la mente della persona colpita, proiettasse un’immagine di Gidan con le sembianze scelte da lui. Era dotato quindi del potere dell’illusione, un’abilità che i vampiri in genere non hanno, ma la fortuna di Gidan fu che ebbe come antenato un mezzosangue, metà uomo e metà demone. I suoi piccoli occhietti vitrei erano caratterizzati da un profilo greco, corniciato da lunghi capelli neri, l’incarnato d’avorio, un sorriso pacifico.

Indossava una camicia nera abbottonata fino al petto, circondato da un ampio bavaro, pantaloni in pelle e stivali con cinghie e borchie, ai polsi preziosi merletti a decorare guanti in pelle lucida che avevano la particolarità di nascondere coltelli con lame ad adamantino, proprio come la lama del pugnale del suo capo.

A Gidan bastava premere un meccanismo sul palmo del guanto e le lame sgusciavano fuori. Quella era l’unica arma di cui sentisse il bisogno.

Arum si lasciò sprofondare sul divano e Zell gli sedette vicino.

«Ho fatto rifornimento come richiesto, Signor Aru..Justin. Oggi all’ospedale era giornata di donazione di sangue, quindi sacche a disposizione ne ho trovate parecchie.»

Justin si voltò verso il diletto. «Ottimo, hai fatto un ottimo lavoro Zell! E tu Gidan, qualche novità sulla combriccola di Zetesis?»

Il vampiro si mise sull’attenti. «No mio Signore, nessuna. Non sono riuscito nemmeno a scovare uno di loro per interrogarlo, sembrano svaniti dal porto.»

Zell attese che finisse la frase e riprese, «però ti vedo preoccupato mio Signore, qualcosa non va?»

Justin si portò una mano al mento pensieroso. «C’è una strega che mi ha notato in quel liceo, subito si è accorta che qualcosa non andava e sebbene non credo abbia molta esperienza, qualcosa in lei non mi convince. Sento una forza straordinaria, ma imprigionata. Forse è alle prime armi o c’è sotto dell’altro, in ogni caso la terrò d’occhio.»

Zell si alzò dal divano e prese una sigaretta. «Magari è lei una delle streghe che cerchiamo, mio Signore»

Justin sbuffò divertito. «Ho detto forza straordinaria, ma non così potente da dare l’impressione di essere una strega elementale. A noi ci servono streghe che sappiano richiamare le forze degli elementi e non di una semplice streghetta. L’unica cosa a cui devo stare attento è che non mi smascheri. Tempo al tempo.. e piantala con queste sigarette, mi si impregnano i vestiti di quella puzza.»

Si alzò a sua volta dal divano e si diresse nella sua stanza, gettandosi a letto. Era ora di dormire. Intanto Kimberly era diretta verso casa, come sempre assorta da un groviglio di pensieri e riflessioni, interrotti sfortunatamente da una fastidiosa vocina che conosceva fin troppo bene.

«Ciao lesbicona!» Kim alzò lo sguardo da terra, si trovò davanti a sé Dafne e le sue civette.

«Pure per strada ti ritrovo, come i chewing gum schiacciati sui marciapiedi» esclamò stizzita la ragazza.

Dafne incrociò le braccia. «Fai la grande donna perché non c’è la tua fidanzatina a proteggerti?»

A Kimberly parvero strane quelle battute. «Guarda che non sono gay, perciò piantala e fammi passare.»

U n ghigno si curvò sul volto di Dafne. «Ragazze, prendetela!» ordinò alle due amiche che presero la malcapitata e la spinsero verso un vicolo.

Cadde a terra e Dafne le si avvicinò. «Ma guardati, quanto sei patetica.. vi ho viste l’altra sera entrare in quel ristorante.. formate una bella coppia, sai? ma ci fate schifo!» era lì per lì per sputarle addosso.

Kimberly si rimise in piedi, scrollandosi di dosso la spazzatura che era sparsa sul pavimento e guardò rabbiosa la ragazza, questo era troppo e non la poteva più sopportare. Dafne continuava a sfidarla lanciandole frecciatine avvelenate sulla sua presunta omosessualità, sul suo modo di vestirsi e comportarsi, mentre Kim accumulava energia dentro di sé, cercando a mente di scatenare tutta la sua forza poiché stava pensando, ora la uccido, ora giuro che la uccido, voglio vedere il suo corpo agonizzante a terra.

Sbarrò d’istinto gli occhi e Dafne cadde sulla ginocchia, urlante di dolore.

«Sto bruciando! mi sento bruciare dentro!» urlò dolorante. Allora l’amica Liz la prese per un braccio. «Che ti sent..ahi! come scotti!»

Kimberly approfittò del momento di distrazione per fuggire.

Che era successo a Dafne? era stata lei a darle quella sofferenza? il corpo è composto prevalentemente d’acqua, forse aveva fatto bollire il corpo di Dafne come aveva bollito l’acqua nel lavandino la sera prima. Si stava convincendo che la storia della magia e delle streghe, non era del tutto finzione. D’altronde, se queste cose vecchie come il mondo esistono, una valida ragione ci sarà no?!

Corse a perdifiato fino a casa, salì le scale a chiocciola e si chiuse nella sua stanza. Pensò che doveva mantenere calma e sangue freddo, che probabilmente dopo aver tolto lo sguardo da Dafne, l’acqua nel suo corpo sarebbe tornata ad uno stato naturale.

 

Quella stessa sera Justin si fece uno spuntino con una sacca di sangue servita in un calice d’oro.

«Zell, tu domani continua a cercare le streghe elementali che ci servono, tu Gidan vedi se riesci a raccogliere informazioni sulla combriccola di Zetesis, io invece voglio tenere d’occhio quella ragazzina, Kimberly.. speriamo di combinare qualcosa, il tempo stringe» ordinò terminando con il calice alzato  e brindando in onore del loro clan.

Affogò le preoccupazioni in quel nettare celestiale che lo rinvigoriva, donandogli tutta l’energia di cui aveva bisogno per affrontare una nuova giornata diurna.

 

Fortunatamente il giorno seguente il sole era troppo pigro per affacciarsi e così Justin non fu costretto a coprirsi. I raggi del sole avevano un effetto devastante sul vampiro, cuocevano la carne come un uovo al tegamino. Arrivò nel liceo facendosi strada silenziosamente tra i ragazzi, cercando con lo sguardo Kimberly.

Infine la vide, accanto al distributore automatico di bibite ma percepì qualcosa di negativo, un’emozione malvagia.

Erano Dafne e le sue amiche che le si avvicinavano.

Pensò che stesse per iniziare un gradito spettacolo, dal momento che aveva perfettamente inteso l’astio tra le due. Kimberly stava bevendo ossessivamente da una bottiglia d’acqua, mentre a passo svelto Dafne le era sempre più vicina per poi scaraventarla a terra con uno spintone.

Justin si appoggiò al muro per godersi la scena, con un sorrisino malefico che scopriva una deliziosa fossetta.

Dafne era furibonda. «Maledetta sudiciona! non ho ancora finito con te, me la devi pagare per ieri» tempestò mentre tutti i presenti si voltarono ad assistere alla lite.

Kim si rimise in piedi, lo sguardo colmo d’odio per quella fastidiosa presenza mattutina. «La devi smettere di darmi il tormento! non ti sopporto più» urlò con tutte le sue forze. Justin si mise sull’attenti per la percezione di un accumulo di potere dall’intensità impressionante. Kimberly strinse i pugni urlando. «Bastaaaaaa» ed a quel punto il sistema antincendio esplose e l’acqua sgorgò con un getto potente sulle quattro ragazze. Dafne e le altre scapparono verso il bagno, invece Kimberly invece si guardò intorno con aria incredula e smarrita, si rese conto che fu stata lei a farlo esplodere, fu la sua mente, stavolta ne era completamente sicura.

Justin non credette ai suoi occhi, tanta energia l’aveva percepita rare volte e accarezzò l’idea che potesse essere lei una delle prescelte e considerando l’attinenza con l’acqua, ella poteva essere la strega elementale di quell’elemento che gli serviva per completare il cerchio degli elementi. Ma non ne era sicuro ed era troppo presto per azzardare ipotesi dal momento che a considerazione dell’espressione sconvolta sul volto della ragazza, aveva esperienza pari a zero o quasi, quindi non era scontato fosse lei la strega giusta. In ogni caso, decise che era meglio continuare a tenerla d’occhio. La vide dirigersi verso l’uscita, probabilmente andava in palestra ad asciugarsi e sistemarsi.

Kimberly si chiuse alle spalle la porta della doccia negli spogliatoi del campo da football. Era il luogo più tranquillo e isolato della scuola a quell’ora. Pensò fra sé e sé , okay Kim sta calma, se la magia esiste e ho una qualche affinità con l’acqua, ora dovrei riuscire ad asciugarmi da sola, devo solo concentrarmi. Chiuse gli occhi e proiettò nella sua mente l’immagine di lei con la divisa asciutta, aprì le mani e le passò da capo a piedi come uno scanner, restando concentrata sin che l’acqua non iniziò a scaldarsi ed evaporare. Sentì il calore su di sé che poco a poco però, iniziò a bruciarla. Ahi! basta così.. non devo esagerare e ancora non riesco a controllare sta cosa.. Rhonda! devo farmi dare dalle spiegazioni da lei, aveva ragione dopotutto, pensò uscendo dalle docce e preparò un discorso da fare alla donna in modo che la perdonasse per il comportamento e l’aiutasse a rispondere ai mille interrogativi che le annebbiavano la mente in quel momento.

Non ci poteva credere, era una vera strega e poteva controllare l’acqua! questa si che era una spiegazione logica a tutti gli avvenimenti legati al caso. Finalmente sì, la spiegazione l’aveva trovata e i misteri svelati.

 

Quel pomeriggio annullò gli impegni con alcune compagne di corso che le chiesero di studiare assieme, e si precipitò al Scilla’s Eye.

Doveva sapere e non meno, doveva scusarsi con Rhonda per averla precedentemente maltrattata. Entrò nel negozio e la donna era impegnata a sistemare alcune candele in una scatola.

Alzò lo sguardo verso Kim e la salutò gentilmente. «Piacere di rivederti mia cara, ci hai ripensato?»

Kim le si avvicinò imbarazzata ed esitante. «In effetti sì, ora ne sono convinta e mi voglio scusare con lei per esser stata sgarbata l’altra volta, io non la volevo offendere.. è solo che è difficile da credere, tutto questo voglio dire.. non sapevo niente di magia, tipo quella nera e via dicendo..»

Rhonda la bloccò alzando un dito. «Mia cara, la magia non è né bianca né nera, è entrambe le cose.. è un equilibrio perfetto della natura, dolce e crudele al tempo stesso.. il male e il bene giacciono in ognuna di noi, nel profondo del nostro cuore.»

Kimberly si sentiva entusiasta per aver scoperto e accettato questa nuova realtà . «Come posso avere il controllo sui miei poteri? voglio dire.. ho appena scoperto di questa cosa dentro di me, ora come mi devo comportare?» trovò il coraggio di chiedere.

Dopo un paio di spiegazioni basilari sulla magia e la stregoneria, Rhonda prese per mano la sua nuova Sorella strega e la portò nel retro bottega, arredato a mo’ di salottino. Si posizionarono esattamente al centro della stanza dove vi era tracciato nelle mattonelle un cerchio magico. La donna prese cinque candele bianche e le accese, le posizionò sul pavimento formando un’immaginaria linea che disegnava una stella a cinque punte. Rhonda alzò le spalle e guardò Kimberly negli occhi, come se volesse entrare dentro di lei e cominciò.

«Per essere benedetta non devi far altro che credere in tre cose: in te stessa, nella magia e nel tuo potere. Ripeti la formula assieme a me.» si interruppe in una breve pausa.

«Per il potere a me concesso di tre volte tre, vieni a me! vieni a me! vieni a me! forza ancestrale, Spirito divino, illumina la mia anima e benedicimi in questa mia rinascita.» pronunciò la donna e Kimberly ripeté le parole di preghiera sentendosi invadere completamente da una forza misteriosa che la fece sentire in quel momento invincibile.

Si sentiva cambiata, ora era una persona completamente nuova.

Una vera strega.

Abbracciò la donna e la ringraziò dell’aiuto che le aveva offerto e della comprensione rassicurante. Rhonda le regalò un libro in cui spiegava le basi per controllare i poteri, delle candele bianche e rosse per i riti e un altro libro sulle invocazioni, in caso le fosse servito invocare qualche Spirito. Kimberly ommise di saper controllare l’acqua, aveva capito che riuscire a fare una cosa del genere non era da tutte le streghe e poteva ritorcersele contro, quindi tenne per sé il segreto.

Si rese conto che il tempo era trascorso fin troppo velocemente, le ore sull’orologio erano galoppate e così si diresse verso l’uscita, abbracciando nuovamente Rhonda per salutarla.

«Se avrai bisogno d’aiuto per qualsiasi cosa, conta pure su di me.. non solo per gli acquisti.. intese mia cara?» si raccomandò la donna.

«Ma certo Rho.. anzi, Sibilla! tornerò presto.»

«Mi fa piacere che anche tu mi chiami Sibilla! bene dunque, ti aspetterò! e fa attenzione d’ora in poi, vedrai le cose in maniera diversa ora che sei una strega annunciata» ricambiò il sorriso in modo sincero Rhonda, raccomandandosi.

Kim aprì la porta. «Non si preoccupi, so badare a me stessa.. sia da umana che da strega» esclamò prima di uscire nel crepuscolo.

Prese a camminare in direzione opposta al quartiere per poter prendere la strada verso casa, quando ad un certo punto sentì una voce alle sue spalle fare il suo nome.

«Cosa ci facevi lì dentro? ora ti sei data a queste cose?» incredula si accorse che era Joanna.

«Ciao Jo! ecco io.. mi fa piacere che ora mi parli» si entusiasmò Kim, ma  la ragazza aveva una scintilla oscura nei suoi occhi e facendo un passo in avanti mantenendo lo sguardo fisso.

«Passavo di qui e ti ho vista.. mi hai fatto una specie di incantesimo che sono ridotta così?!» ridacchiò dopo la battuta sarcastica e Kim si sentì subito a disagio.

«No, ero solo curiosa.. non scherzare su queste cose.. piuttosto, noi dobbiamo parlare» si sentì improvvisamente a disagio e Joanna rise istericamente.

«Parlare io e te? non abbiamo niente da dirci Kimberly! e scordati che verrò alla tua festa, se per caso pensavi di chiedermelo come scusa per fare pace.. sei imperdonabile per ciò che mi hai fatto.. per come mi hai ridotta!»

Kim esitò. «Mi dispiace che la pensi così e soprattutto mi dispiace che reagisci in questo modo esagerato dopo anni di amicizia! non puoi dare la responsabilità a me di quello che è accaduto! non li controllo io i sentimenti e non lo puoi fare nemmeno tu, la colpa dunque non ricade in nessuna delle due, ficcatelo bene in testa!»

Joanna sbuffò. «Stiamo dando spettacolo, vieni qui.»

Si diresse verso un vicolo appoggiandosi al muro per togliersi dal marciapiede in cui i passanti con la coda dell’occhio seguivano la vicenda fra le due. Kimberly cercò di farla ragionare, ma la cosa degenerò e tra le due, ormai ex amiche, scoppiò un violento litigio, urlandosi contro cose che in realtà non pensavano.

In verità Kimberly stava solo cercando di difendersi dagli attacchi isterici di Joanna che mise tra le sue frasi una cattiveria inaudita, mai appartenutale prima.

Ad un certo punto sentirono un rumore provenire dal fondo del vicolo e una fioca luce verde. Si bloccarono e si scambiarono una rapida occhiata. Poi Kim, presa dalla sua irrefrenabile curiosità, si diresse nella direzione del rumore e della lucina. Joanna la seguì, poteva anche essere pericoloso e nonostante tutto non se la sentiva di lasciarla da sola in un vicolo buio e ambiguo.

Si avvicinarono, ma non trovarono nulla di anormale.

Il vicolo era vuoto. Non si muoveva un granello di polvere.

Kimberly si guardò intorno, alzò lo sguardo verso il cielo, ma nulla di nulla. Joanna era alle sue spalle e lanciò un urlo strozzato, tendendo la mano verso di lei. Si voltò di scatto e vide la ragazza con gli occhi spalancati e spenti, una mano alla gola come se stesse soffocando e l’altra mano protesa in richiesta d’aiuto.

Kimberly preoccupata e rapita dal panico urlò. «Che cos’hai? Joanna? Joanna rispondi!» ma l’amica cadde a terra e poco dopo alzò il capo in direzione di Kim che notò una cosa stranissima. Aveva gli occhi gialli.

Si alzò di scatto, quasi come se fosse risucchiata dalla forza di gravità e in un baleno era in piedi, davanti a lei.

«Hai paura Kimberly? ora morirai» pronunciò con voce roca e disumana. Di tutta risposta, la ragazza urlò nuovamente e fece due passi indietro, sconvolta e terrorizzata da quella che non sembrava più essere la sua ex amica del cuore, ma un personaggio completamente diverso.

Sembrava proprio che qualcosa l’avessero.. impossessata? non era possibile! anche queste cose allora erano vere!, fu il primi pensiero di Kim.

Escogitò qualcosa per fermare quell’entità maligna e liberare la ragazza, ma era ancora piuttosto inesperta su Spiriti, poteri e via dicendo e come se non bastasse, non vi era acqua o liquidi nei paraggi. Non sapeva proprio che fare, quando si ricordò di quando aveva fatto bollire il corpo di Dafne.

Iniziò a concentrarsi ma nulla, evidentemente ora il corpo di Joanna era immune a quell’incantesimo, dato che il suo corpo era rapito dalla forza oscura.

Proprio quando sembrava che la figura che aveva davanti a se stesse per balzarle addosso e divorarla o chissà che altro, sentì una voce.

«Glosbe monstrum!» e qualcosa colpì Joanna, o chiunque fosse, sulla schiena. Era una sorta di amuleto.

Alle sue spalle, c’era Justin. Kimberly si domandò cosa ci facesse lì e quale fosse il significato delle parole che aveva pronunciato o l’utilità di quell’amuleto, dal momento che sembrava averle fatto il solletico.

La versione demoniaca di Joanna fece un rapido gesto col braccio, scaraventando Justin a terra, come se una folata di vento spazzasse via un foglietto di carta.

Si rivolse nuovamente a Kimberly, minacciosa. «Non ce la farai a fermarci, strega!» a quel punto una luce verde acido prese il posto alle pupille di Joanna e del fumo argento le uscì dalla bocca fino a volare via con una velocità impressionante. Il corpo della ragazza si accasciò a terra come un guscio vuoto.

Joanna era morta.

Kimberly si inginocchiò accanto al corpo dell’amica. Ora l’aveva davvero persa per sempre e molto probabilmente per colpa sua, non aveva potuto fare niente, era tutto inutile. Pianse le sue lacrime più amare, appoggiando la testa sul ventre della ragazza e stringendole una mano.

Sentì Justin avvicinarsi alle sue spalle.

«Andiamocene via di qui, potrebbe essere pericoloso, qualcuno magari potrebbe vederci e sarebbe un bel problema spiegare l’accaduto.»

 Kimberly lo guardò, il viso rigato dalle lacrime, l’espressione sconvolta e turbata. «Chi sei tu? che cos’era quello? io non capisco.. la mia amica è morta.. morta!»

Justin l’aiutò a rimettersi in piedi e ricomporsi mentre continuava ininterrottamente a piangere. «Lo capisco invece, ma ti ripeto che stare qui è troppo rischioso, andiamocene.»

Kimberly tornò per un momento in sé. «E va bene, ma mi devi un sacco di spiegazioni tu! centri con questa storia, con la morte di Jo» lui le lanciò un’occhiata fulminea. «Non ho ucciso io questa qui, anzi ho cercato di aiutarti! stolta mocciosetta!» ribatté urlandole contro, ma Kim convenne sul fatto che non era il caso di rimanere in quel luogo, se fosse tornata quella cosa?

Si sedettero in una panchina del parco in cui Alex portava il cane a giocare. Justin si presentò a Kimberly che rimase stupefatta dalla rivelazione del ragazzo di essere un vampiro.

Poi riprese. «Quello che sta succedendo in realtà è molto semplice da spiegare.»

Kim intrecciò le dita sul ginocchio della gamba accavallata e considerò che la presenza di Justin in fondo la rassicurava e inoltre, era davvero bello.

«Allora forza, spiegati perché tanto non mi stupisce più nulla!»

Il vampiro cominciò a narrare. «Un mio antico rivale di nome Zetesis, altro capo clan di vampiri, ha evocato da un mondo parallelo un potentissimo demone. HeiShin. Lo scopo di Zetesis è di diventare il vampiro più forte e di dominare su tutti gli altri clan per diventare la razza governante di questo mondo e per riuscirci ha bisogno di un grande potere, il quale HeiShin è in grado di fornirgli. L’esplosione di luce che tutti hanno visto al porto, era il successo del rito d’evocazione del demone. Il problema non è solo questo, ma il fatto che HeiShin si è ribellato a Zetesis ed è fuggito dal campo di forza energetica del loro nascondiglio. Ora è libero e assetato dalla brama di potere, evidentemente vuole essere lui a dominare stavolta. Per riuscirci, tuttavia, ha bisogno di non essere una semplice entità, ma deve diventare reale, tangibile. Per farlo deve assorbire l’energia vitale e l’anima degli esseri umani. A fare ciò l’aiuta la sua armata di demoni, capitanati da quattro Spiriti maligni. Rabbia, Odio, Vendetta, Pietà. Essi si nutrono di queste emozioni e sentimenti per divorare l’anima degli umani. La tua amica ad esempio.. era carica di rabbia nei tuoi confronti e Rabbia lo Spirito, lo ha percepito, risucchiando la sua prima vittima. Ciò vuol dire che la mietitura è iniziata.»

Kimberly non riusciva a credere a quelle parole. «E come puoi tu fermarlo?» chiese infine, riflettendo sul racconto del giovane.

Il vampiro si scurì in volto. «Io da solo non posso, il mio compito è di trovare il portale che può rispedire HeiShin nella sua dimensione e per farlo ho bisogno di un antico amuleto. Il Sigillo di Kronos. La leggenda di Ecate, una divinità celtica, racconta che il Sigillo fu diviso in tre parti per non cadere in mani sbagliate e che solo quattro streghe prescelte potevano riunirlo e usarlo per aprire i portali. Devono essere quattro streghe elementali, ossia in grado di controllare gli elementi naturali, poiché solo la forza della natura può aprire questi portali.»

Kimberly si sentì la testa pesante da tutte quelle nozioni. «Dunque devi trovare queste quattro streghe terra, acqua, fuoco, aria e prendere il Sigillo e.. aprire il portale e sbattere all’inferno il mostro, dico bene?»

Justin abbozzò un sorriso per il riassunto infantile della giovane. «Esatto.. il primo pezzo dell’amuleto ce l’ho io, gli altri due sono da ritrovare.. e per quanto riguarda le streghe, considerando le tue abilità con l’acqua.. penso di aver già trovato la prima prescelta» rivelò tutto d’un fiato.

Kimberly si alzò di scatto incredula da quest’ultima rivelazione. «No no no e no! non ci penso proprio pelle bianca, scordatelo! Non metterò a repentaglio la mia vita con demoni, fantasmi e via dicendo.. inoltre ne so poco sulla magia e sto imparando soltanto ora a controllare i miei poteri! trovatene un’altra!» urlò stizzita, irritando a sua volta il vampiro che avrebbe voluto azzannarle il collo e porre fine a quell’irritante squittio.

«Sei una sciocca! non capisci che hai un immenso potere che non è destinato a tutte? sei una strega dell’acqua, quindi una delle prescelte. Prima lo capirai e lo accetterai, meglio sarà! hai tanto da imparare e su questo ne sono d’accordo, ma ci sono io a farti da mentore ora. Ti aiuterò a rafforzarti mentre cerchiamo le altre tre! » esclamò lui con un tono che pareva più un ordine.

Kimberly si rese conto in quell’attimo che la sua vita era totalmente cambiata.

 

 

 


CAPITOLO 15

 

Kimberly si gettò a letto, distrutta. In tutti i sensi. La sua vita aveva preso una piega a lei inaspettata. Non aveva mai riflettuto sul suo futuro, non aveva fatto nuovi progetti da quando Max l’aveva lasciata.

Ripensò a Justin e alle sue rivelazioni, come poteva essere un vampiro? era allergico all’aglio e temeva le croci come dicono le storielle?

Assunse una posizione fetale e decise di rimandare quei interrogativi all’indomani, per porli direttamente a lui.

E Joanna, avranno ritrovato il corpo? La sua mente volò ai suoi genitori e al fratello maggiore Leonard. Quando lo sapranno saranno distrutti e lei alla notizia dovrà apparire stupita e addolorata più che mai, come se già non avesse pianto abbastanza.

 

Mentre Kim si dimenava nel suo letto, Justin era in compagnia di Zell nell’oscurità della notte. Il vampiro mise al corrente degli sviluppi al suo capo.

«Penso proprio di aver trovato anche io una strega elementale, siamo a quota due» spiegò questi.

Justin si sistemò il ciuffo con esagerata cura. «Perfetto, domani verificheremo, dove l’hai vista?» chiese infine, ancora assorto dai pensieri della giornata.

Zell fece spallucce. «A dire il vero l’ho vista all’uscita del liceo che stai frequentando, era a cavallo di una moto e ha fatto salire una studentessa. Se troviamo la studentessa, troviamo anche la strega.»

Il vampiro fece un ghigno compiaciuto. «Sai per caso il nome di questa ragazza? così potrò chiedere a Kimberly se la conosce.»

Il diletto aveva imparato a conoscere bene il suo capo, d’altronde aveva anche più esperienza e colse una sfumatura insolita nella sua voce quando pronunciò il nome della ragazza.  «Si chiama Lucy.. questo è il nome che ho sentito, perlomeno.. mio Signore posso farti una domanda?»

Justin stava riflettendo su chi poteva essere questa Lucy.

«Chiedi pure!»

«Quella Kimberly ha qualcosa di speciale?» chiese poco prima di accendersi una sigaretta.

La domanda arrivò inaspettata e rapida, come una freccia scagliata da un arco invisibile e fece colpo al primo tiro.

«Inutile ti chieda il motivo di tale domanda mio diletto, sei un mio servitore da molto tempo. Ebbene si, qualcosa che mi ha colpito in quella strega c’è. Ha lo stesso colore di occhi di lei» abbassò lo sguardo e Zell comprese che la conversazione era volta al termine.

 

Lunedì. Una nuova settimana pronta ad iniziare. Prima delle lezioni, Justin chiese a Kimberly se le veniva in mente qualcuna col nome di Lucy.

«Effettivamente si, conosco Lucy McKenney, frequentavamo lo stesso corso di cucito l’anno scorso. Perché?» chiese lei.

«A quanto pare una sua amica è la seconda prescelta che stiamo cercando e dobbiamo indagare per scoprire chi sia» rispose lui con tono stranamente calmo.

Kimberly si sentì confortata da quella notizia, se riuscivano a trovare subito un’altra strega, almeno non sarebbe stata sola e sebbene il vampiro si fosse ammorbidito, non aveva perso il tono prepotente.

«Lucy te la posso mostrare anche subito, vieni» affermò infine e lo accompagnò all’ufficio dell’associazione verde del liceo. Con un cenno della mano gli indicò di guardare attraverso la vetrata della porta.

Nell’ufficio c’era Lucy con un gruppetto di ragazzi che sistemava dei cartelloni e manifesti contro una parete.

Era una ragazza dall’aspetto molto dolce, i movimenti aggraziati e il portamento da perfetta organizzatrice. I capelli lunghi di un nocciola chiaro erano legati a coda di cavallo, gli occhi verdi e vispi dietro a grossi occhiali erano intenti a compiere a dovere il loro lavoro.

Lucy era entrata a far parte dell’associazione verde da qualche mese e l’avevano addetta alle scartoffie, quindi non era difficile trovarla in quel posto.

Justin si voltò verso la compagna di missione. «Perfetto, spera sia lei. Non ho nessuna voglia di perdere tempo. Al termine delle lezioni la seguirò» disse lui sbuffando.

Kimberly alzò lo sguardo. «Viene sempre a prenderla una tizia in moto, quindi potrebbe essere proprio lei, non credi? non ti faccio perdere tempo! piantala con questi modi bruschi, mi dai ai nervi!» sbottò.

Immediatamente il vampiro s’imbronciò. «Si dia il caso ragazzina che ho molti più anni di te e che saremo costretti a sopportarci ancora un bel po’ sebbene mi auguro sia il meno possibile, cerca quindi di rendere questa compagnia meno irritante!» alzò i tacchi e si congedò.

Prima di voltare l’angolo per entrare in classe però, si sorprese a guardare la ragazza.

I suoi occhi lo turbavano. Una fitta allo stomaco lo colpì come una spada.

 

La giornata scolastica volse al termine con rapidità ed il vampiro si posizionò all’uscita del liceo in attesa. Kimberly se ne accorse ed in quel momento vide Lucy scendere gli scalini e le corse incontro.

Voleva provare a strapparle qualche informazione circa la sua amica.

«Ciao Lucy, come stai?» esordì Kim con un largo sorriso.

La compagna le sorrise amichevolmente. «Ciao Kimberly, sto bene grazie e tu? non sei con la Pierce oggi?»

Kim rabbrividì al suono di quel nome, doveva inventarsi una scusa, per quanto fosse doloroso affrontare l’argomento.

«No, forse è malata.. senti ma, sei da sola? vuoi un po’ di compagnia?» chiese imbarazzata.

Lucy strinse a sé i fogli che portava in grembo e la guardò con aria interrogativa. «No, no grazie.. mi viene a prendere la mia.. ragazza» rivelò avvampando in volto.

Kimberly ebbe un sussulto. «Ah la tua.. ah ok, ti avevo vista in effetti con una tizia su una moto» balbettò Kim mentre a Lucy brillarono gli occhi.

«Sì, la mia Kira guida una moto.. sarà qui a momenti, scusami ma devo proprio andare» si scambiarono un breve saluto e a Kimberly venne la pelle d’oca per il fatto che Lucy fosse gay poiché le tornò alla mente l’avance di Joanna, accompagnata quindi da diversi ricordi.

Dopo pochi minuti arrivò rombando sulla sua moto la fidanzata di Lucy.

Justin era sull’attenti e la squadrò da capo a piedi. In quel momento si accorse che dall’altro lato della strada era arrivato Zell, tempestivo come sempre. Gli fece un cenno di assenso, doveva seguirla non appena fossero partite.

Lucy salì sul veicolo abbracciando la ragazza e dandole un tenero bacio sulla guancia. «Ciao Kira, andiamo pure» salutò amorevolmente

«Ciao dolcezza, stringiti forte» ammiccò l’altra poco prima di partire.

Seguite dall’implacabile Zell.

Justin nel frattempo andò verso Kimberly e la rimproverò di aver parlato con Lucy poiché poteva rovinare tutto facendola insospettire.

«Rilassati cowboy della notte, ho solo fatto conversazione e ho scoperto che la sua.. ehm fidanzata.. si chiama Kira!» esclamò Kimberly con sarcasmo. Quanto odiava quel suo modo di fare così sfrontato? O forse no.

Il vampiro quindi stava per esplodere, non aveva molta pazienza.

«Bella scoperta! sapevamo già il suo nome, stavamo solo aspettando che arrivasse per inseguirla! il tuo aiutino non era affatto necessario e non ti azzardare mai più a fare qualcosa di testa tua, rischi di combinare solo danni» sbraitò infine.

«Ti preoccupi troppo, ti verranno le rughe vecchio come sei. Vecchio e insolente per giunta!» spazientita, Kim chiuse il discorso.

Imbronciati presero strade opposte per tornare alle loro rispettive vite. La ragazza aveva la capacità di turbare il vampiro con i suoi occhi, con la testa facilità nel fargli saltare i nervi.

 

Intanto Kira si fermò davanti all’abitazione di Lucy, promettendole che si sarebbe fatta sentire prima di entrare al lavoro. Si baciarono teneramente e poi con un rombo ripartì, facendo ritorno nel suo monolocale in un piccolo palazzo di un modesto quartiere.

Kira Jackson aveva da poco compiuto i vent’anni e lavorava nella biglietteria di un cinema. Il suo stile si avvicinava molto al dark e al metal, anche se era costretta a contenersi a causa dell’impiego. Quel pomeriggio indossava una larga maglietta nera con disegnato un teschio dall’espressione adirata e un piercing sulla cavità nasale, circondato da una nuvola di fumo violaceo. I pantaloni erano attillatissimi circondati da una lunga catena, al collo teneva un collare con borchie, ai piedi e alle mani portava stivali e guanti da dark biker.

Aveva la carnagione leggermente olivastra, tanto da lei detestata poiché avrebbe voluto essere pallidissima. I capelli corvini erano mantenuti rasati, capitanati da un lungo ciuffo a cresta tinto di un rosso acceso. Alle orecchie indossava lunghi orecchini a pendolo d’argento, con la punta a forma di teschio con la lingua di fuori. Aveva un piercing all’ombelico e uno sotto la lingua. Il viso ovale e gli occhi neri erano definiti da trucco pesante, con eyeliner nero e smokey eyes viola e le labbra di un rosso sangue.

La sua espressione tenera che manteneva con l’amata Lucy, diventava grave non appena si ritrovava ad essere sola.

Si sedette nella stretta cucina, i gomiti appoggiati al tavolo e la mente che organizzava il seguito della giornata, non sapendo che Zell la stava spiando.

La vita di Kira fu piuttosto turbolenta. Nata in un paesino remoto del Nevada, non aveva mai conosciuto il padre. Crebbe con la madre in una piccola baracca malandata riuscendo a sopravvivere ai giorni che passavano grazie allo stipendio da cameriera che prendeva. Quando Kira andava a scuola, la madre per arrotondare e permettersi di comprarle libri e altro materiale scolastico, si ritrovò costretta a prostituirsi, stando ben attenta a non farsi scoprire dalla figlia per non darle tale dispiacere. Purtroppo però Kira era una bambina decisamente sveglia, intelligente e capì.

Una sera d’estate, assistette ad una scena d’incontro tra la madre e un potenziale cliente. Si sentiva combattuta tra l’odiare la madre per essersi ridotta in quel modo invece di cercare soluzioni alternative, a cominciare dal fatto di trasferirsi, e l’amarla per il sacrificio che compieva per il bene della figlia. All’età di dieci anni però, la perse. Sua madre morì di una violenta e gravissima bronchite. Questo è quello che le dissero gli zii, portandola poi con sé ad Orlando dove vi abitò fino all’età di quindici anni. Il rapporto con la sorella della madre fu burrascoso ed un giorno non poté più sopportare di vivere con lei sotto lo stesso tetto, così iniziò a cercare un lavoro, trovando nel frattempo rifugio a casa di un amico. Definirla casa non sarebbe il termine esatto, dato che precisamente si trattava di una roulotte.

Due anni dopo riuscì a prendersi un appartamentino in affitto e ad essere libera, indipendente. Occasionalmente spacciava cocaina con due amici, ma era raro che lei stessa facesse uso di sostanze stupefacenti, anche se ogni tanto si lasciava andare a qualche canna o una tirata di coca. Compiuti i diciotto anni salì sul primo treno per San Francisco e coi soldi accumulati nella sua breve carriera di spacciatrice, riuscì ad acquistare il monolocale dove ancor’ oggi vive.

Il suo carattere era forte, determinato, passionale, nulla la spaventava. Ma era anche piuttosto fredda e cinica, disgustosamente realista, dalla lingua tagliente come se avesse ingoiato una lametta.

Un giorno trovò impiego nella biglietteria del cinema Diamonds e fece sin da subito amicizia con Steven, un ragazzo ex tossico dipendente con la passione per il metal. Dopo qualche mese che si vedevano in amicizia, per Steven le cose si fecero più serie, ma Kira gli confessò di sentirsi attratta solo dalle ragazze. In effetti, fin da bambina Kira era affascinata dalla sue giovanissime compagne di scuola e da ragazzina provò vera e propria attrazione per il suo stesso sesso. Non ebbe mai una relazione stabile, solo qualche sporadica avventura con qualche tossica nel periodo in cui spacciava. Nonostante questa confessione però, lei e Steven divennero ancora più amici tant’è che lui le regalò la sua moto.

La prima relazione d’amore per Kira fu con Lucy. L’aveva totalmente cambiata, in sua compagnia si sentiva una donna diversa.

Conobbe la prima volta Lucy sul posto di lavoro, era andata al cinema con delle amiche e prenotò i biglietti. Si scambiarono un’intensa occhiata e fu come se cupido avesse prontamente scagliato la sua freccia sul cuore di Kira, rapita dallo sguardo tenero di Lucy che le sorrise dietro il suo visino d’angelo.

Dopo qualche settimana lei tornò al cinema con le stesse amiche e Kira colse l’occasione per prendere tempo e scambiarci due chiacchiere, quasi fosse posseduta dal bisogno di sentire il suono della sua voce.

Una sera, finito il turno, Kira uscì dal retro dello stabile e si avviò per la strada semi deserta fin quando vide da lontano Lucy in attesa di un taxi e pensò così di approfittare dell’occasione per parlarci nuovamente. Ad un certo punto vide che alle spalle di Lucy quattro ragazzi dall’aria poco raccomandabile le si avvicinavano e allora iniziò a correre.

Uno di loro prese Lucy per un braccio, mentre gli altri borbottavano qualcosa, Kira si precipitò stringendo alla mano un accendino a zippo, lo aprì e fece un rapido gesto col braccio, come uno spadaccino pronto a far breccia sul nemico, lingue di fuoco si abbatterono sui quattro ragazzi, ferendo il braccio che teneva stretta la sfortunata Lucy. I malfattori se la diedero a gambe levate imprecando.

Kira si accertò che l’altra stesse bene mentre la osservava stupefatta.

«Ma come hai fatto?» le chiese ancora sbalordita.

 Kira imbarazzata si passò una mano sulla nuca. Ehm.. è un mio piccolo segreto» rispose imbarazzata, non riuscendo a mantenere il distacco.

Lucy sorrise e per Kira sembrava che il mondo si fermasse in quel preciso istante. «Vuoi un passaggio?» riuscì a chiederle e poco dopo erano a cavallo della moto di Kira.

Parlarono a lungo, anche dell’attrazione che erano in grado di provare e così l’intesa si solidò. Arrivate all’abitazione di Lucy, l’altra le chiese di uscire una sera per conoscersi meglio ottenendo una risposta affermativa. Si frequentarono spesso e in entrambe nacque un forte sentimento. Una sera, dopo una romantica uscita in cui Kira regalò un anello di quarzi bianchi e rosa alla sua amata, questa le propose di passare la notte da lei e incoronare il sentimento che era sbocciato.

Lucy aveva addobbato il suo appartamento a dovere, con oli essenziali in eleganti ciotole con acqua tiepida, incenso di vaniglia e sandalo pronto per essere consumato, abat-jour coperte da veli per fornire all’ambiente una roca luce. Kira rimase sorpresa dell’impegno che spese la sua dolce creatura. Nella stanza da letto, aveva sistemato alcune candele che accese, rivelando un delicato profumo di vaniglia, e petali di rosa cosparsi su lenzuola di raso.

Kira si sedette sospirando, assorta nei suoi pensieri. «Ancora non capisco come tu possa stare con me.. amare proprio me.»

«Perché sei diversa da molte persone, Kira!»

«Non è affatto vero Lucy. Tu sei così candida, così splendida.. mentre io..»

«Vedi, tu sei una di quelle donne che si da costantemente contro. Ti demolisci, sfoggi il peggio di te e mostri spudoratamente i tuoi difetti. li accentui come a voler dire "guardatemi, sono una persona pessima e nient'altro". Dici che non ti piaci, che non sei disposta ad accettare consigli, tanto non li seguiresti mai. Dici che sei brutta, ma fai di tutto per curare il tuo aspetto. E questo, solo perché ti si possa notare. Vuoi essere notata, almeno una volta, anche tu. E aspetti solamente che qualcuno non ti dia consigli, ma ti porga la mano e ti accompagni per la strada. Aspetti solamente che qualcuno ti abbracci e ti dica che non sei un errore, come in realtà pensi. O come vuoi far credere.
Aspetti speranzosa che qualcuno coi tuoi difetti ci faccia l'amore, che si ubriachi della vitalità che nascondi sotto lo strato del tuo modo di fare da perenne pessimista. Aspetti, speri, sogni. Non lo dai a vedere, ma sei sempre un po’ più fragile. Perché ad aspettare ci si stanca. A sperare ci si illude. A sognare talvolta, ci si perde. Ma infondo lo sai, un giorno verrai ripagata di tutto. Di tutto. E io sono qui per questo! per amarti!»

A quelle parole, Kira non seppe come controbattere. Le mancava il fiato. Nessuna persona al mondo sapeva leggerle dentro come faceva Lucy.

Con una lacrima che le rigò il viso la prese delicatamente, ma con fermezza e la baciò. Pochi, rapidi gesti, per spogliarsi. Kira si bloccò a contemplare le sue curve alla fioca luce delle candele e ne disegnò le sfumature con gli occhi, per poi divorarla. Lucy si concesse in tutta la sua docilità e Kira la sbatté contro il muro per possederla, quando ad un certo punto una tenda prese fuoco.

Le fiamme di tutte le candele si fecero alte e danzavano spasmodicamente. Fu l’eccitazione di Kira a provocare la brama delle fiamme. Poi il fuoco si calmò.

 

Già, il fuoco. L’elemento che purifica.

Kira era in grado di controllarlo, di averne il pieno dominio poiché era la strega elementale del fuoco e ne aveva piena coscienza.

Da bambina mentre giocava con qualche amichetto davanti ad un falò, si avvicinò troppo alle fiamme che scoppiettavano, ma non si bruciò. Il fuoco esitava a toccarla, le stava attorno come un mantello, come se la venerasse, la rispettasse. In quel momento non ci fece caso, ma col tempo si sentiva attratta da quell’ elemento e ogni volta che vedeva una fiamma, la sentiva bramante del suo potere. Ben presto la ragazza riuscì a domarlo con disinvoltura, a giocarci, a prendere confidenza e ad amarlo, senza porsi troppe domande fino a che si interessò alla magia. Durante il suo periodo di crisi con la droga, studiò l’esoterismo e l’occulto celtico per assorbire quanta più conoscenza possibile ed un giorno, prima di partire per San Francisco compose un piccolo altare, dove riporre i suoi pensieri più reconditi, le sue preghiere come tributo agli Spiriti del Fuoco e per esercitarsi a compiere qualche rito, piccole cose. Ben presto divenne una vera Strega e ne fu consapevole. Un segreto che non rivelò mai alla sua Lucy.

 

Zell era appostato ad un incrocio sotto al palazzo di Kira, la scorgeva da dietro le bianche tendine della sua cucina dove si stava preparando uno spuntino o un caffè. La sagoma della donna non delineava nitidamente ciò che stava compiendo. Dopo ancora qualche attimo di esitazione, pensando a come avrebbe potuto interpretare la sua comparsa e spiegare l’intera vicenda alla strega, il vampiro gettò a terra la sigaretta e si diresse verso il portone del condominio. Salì le scale, cercando quello di Kira al sesto piano e quando lo trovò, con cautela bussò alla porta.

La donna aprì lentamente, con diffidenza, lasciando scoprire il micro salotto della sua abitazione, arredato alla bene e meglio, con una tazza di caffè fumante appoggiata al tavolino davanti ad un divano in pelle nera.

«E tu chi diavolo sei?» chiese lei con aria truce.

«Posso parlarti? è importante» rispose Zell schiarendosi la gola.

Lo sguardo di Kira si posò sulla katana del vampiro, che evidentemente aveva scordato di portare con sé ed allora capì che non era un semplice ragazzo alla quale serviva un’informazione oppure un rivenditore, era una creatura mistica!

Sferrò un pugno in direzione del viso del vampiro, ma lui con scatto quasi felino si abbassò e si lanciò verso il suo stomaco, facendola cadere a terra. Con un calcio chiuse la porta e un attimo dopo le era sopra, bloccandole i polsi con le mani e le gambe col peso del corpo.

Per quanto fosse forte fisicamente Kira, il vampiro lo era almeno cento volte di più.

«Chi sei e cosa vuoi da me?» prese a chiedere lei ansimando dallo sforzo.

Il vampiro fece sparire dal suo volto l’espressione di nervosismo, cercando di apparire impassibile. «Mi chiamo Zell e come avrai già capito sono un vampiro, ma non sono qui per ucciderti, devi ascoltarmi!»

La ragazza cercò di strattonarlo al fine di liberare almeno un braccio.

«Come faccio a fidarmi di te? Non sono mica stupida, non è la prima volta che affronto una Bestia come te!» a quell’esclamazione, tanto detestata da Zell, gli venne l’irrefrenabile impulso di spezzarle i polsi, ma sapeva perfettamente che avrebbe compromesso anzitutto la missione del suo padrone.

«Se avessi voluto ti avrei già uccisa, strega!» ringhiò. «Anche io dovrei fidarmi di te, dopotutto sei una strega elementale ed esperta. Ma parlarti fa parte della mia missione, abbiamo bisogno di te!»

Kira lo guardò con aria di sfida. «Abbiamo? liberami e sediamoci» si arrese infine, incuriosita dal fatto che generalmente i vampiri non chiedono aiuto, tanto meno alle streghe.

L’uomo si spostò dalla donna e si sedette sul divano. Lei prese in mano il suo accendino a zippo ed imitò Zell.

Poi lo intimò a parlare e così lui iniziò a raccontarle della sua missione e quella del suo padrone Justin, della leggenda di Ecate, del fatto che erano riusciti a trovare la prima strega, quella dell’acqua e che uno degli Spiriti maligni di HeiShin, aveva mieto la sua prima vittima.

Kira aveva sentito la forte esplosione al Porto, qualche sera precedente e poi ne parlavamo talmente tanto ai notiziari, che decise di credere a quella versione. Pure il resto non le sembrava inverosimile e poi un vampiro non ha motivo di mentire ad una strega se non per impedirle di farlo a pezzi o per un tornaconto ben preciso. Insomma, quel tizio seduto accanto a lei sembrava non mentirle e iniziò così a fidarsi, riponendo in tasca l’accendino. Per il momento sentiva di non averne bisogno. Oltretutto, non percepiva in Zell la stessa aura negativa che aveva percepito qualche giorno precedente, evidentemente apparteneva ai suoi nemici oppure allo stesso demone che avevano risvegliato.

La faccenda era seria e totalmente reale, non poteva di certo starsene con le mani in mano.

Forse in un’altra occasione avrebbe alzato le spalle e sospirando avrebbe esclamato qualcosa del tipo arrangiatevi, non sono affari miei, ma in quel momento per Kira era diverso poiché erano anche affari suoi, aveva qualcosa da perdere, qualcuno da proteggere e al quale sacrificarsi in ogni mezzo.

Lei aveva Lucy.

Al solo pensiero che la sua amata potesse finire in qualche guaio a causa dei vampiri o dei demoni, proprio lei stessa che aveva tanto cercato di tenerla alla larga dalla magia e dall’esoterismo in genere, le veniva la pelle d’oca, non poteva permettere che le fosse torto un solo capello.

Accettò dunque la missione e strinse la mano a Zell, un gesto che lo definiva come una sorta di sigillo d’alleanza. Prese la tazza di caffè dal tavolino e lo bevve facendo l’occhiolino al vampiro.

Pensò che fosse sciocco ed inutile offrirgli la bevanda poiché il massimo che bevono i vampiri è il vino, secondo le sue conoscenze. Si rese conto che era informata al riguardo più di quanto non avrebbe in realtà dovuto, ma in fondo fu meglio così. Le sue conoscenze ed i suoi studi le tornarono utili e stavano decisamente fruttando.

Si sentiva carica. Si sentiva pronta.

Si alzarono entrambi dal divano, era giunto il momento per lei di andare a conoscere Justin e gli altri e di conoscere gli ultimi dettagli della vicenda e come procedere nella loro missione di ritrovare le streghe mancanti.

Uscirono dallo stabile e Kira si mise in groppa alla sua moto, seguita dal vampiro. Sebbene Zell fosse estremamente veloce, un passaggio non gli avrebbe guastato e poi sarebbero arrivati insieme, potendo così indicarle l’abitazione provvisoria in cui giacevano.

Con un rombo tuonante, i due partirono non sapendo che qualcuno li stava spiando. Una presenza ambigua, ma inequivocabilmente maligna. Appostata al fondo del viale, pronta ad attaccare o ad escogitare qualche piano?

 

Nel frattempo, proprio in quello stesso momento, Gidan era ancora alla ricerca del clan di Zetesis, o di quello che ne poteva rimanere dopo l’esplosione del loro nascondiglio al porto.

Le tracce erano infime poiché non si era più visto nessuno di loro.

Era pronto a tornare indietro, quando in un vicolo di un quartiere trasandato e semi nascosto da enormi grattacieli, vide uno dei seguaci del nemico. Si trovava posizionato davanti all’entrata di un bar.

Era facile riconoscerli poiché avevano tutti quanti dei tatuaggi tribali sull’avanbraccio sinistro.

 Gidan rifletté su quale componente del loro clan avrebbe potuto prendere forma, di certo non sarebbe stato astuto trasformarsi in Zetesis in persona e fare delle domande, la cosa avrebbe puzzato di marcio a quella sentinella.

No, doveva prendere le sembianze di qualcuno che contava qualcosa all’interno del clan, ma che non aveva un ruolo rilevante.

Gli venne in mente un vice dei due favoriti da Zetesis, un vampiro piuttosto giovane con cui aveva lottato in qualche occasione. Per completare il suo incantesimo, Gidan doveva aver avuto a che fare con la persona o creatura del quale doveva assumerne l’aspetto. Chiuse gli occhi e si concentrò focalizzando ogni minimo particolare di quel vampiro. La forma del viso, il taglio degli occhi, il colore dei capelli, lo stile dell’abbigliamento e via dicendo, sentendoli parte di sé come se lui stesso fosse quel vampiro.

Uno strato sottile di seconda pelle avvolta interamente sul suo corpo, una sorta di lenzuolo bianco in cui ci si nasconde ad Halloween per simulare un fantasma e spaventare i propri amici.

Dopo un lungo sospiro, quando la sua energia era al culmine, aprì gli occhi che scintillavano di rosso e d’argento e si mise in cammino verso il nemico. Questi si girò verso Gidan, ma non era lui che vedeva avanzare, i suoi occhi non percepivano la sua immagine, ma quella del vice vampiro clan che Gidan aveva stampato nella sua memoria.

Ormai il mutaforma era esperto nella sua Arte, ad usare il suo eccezionale potere per confondere e illudere l’ottica altrui. Il dado era tratto, ora doveva solo giocare bene le sue carte per ottenere più informazioni possibili, sperando ovviamente che quella sentinella fosse ricca di succose novità.

Quando gli si avvicinò, egli si mise sull’attenti. «Che cosa ci fai qui Ares?» chiese sorpreso.

A quanto pare il vice si chiamava Ares. Gidan rispose tranquillamente, capendo che probabilmente si erano divisi e non era quello il nascondiglio di cui faceva parte.

«Sono di passaggio, volevo controllare la situazione» rivelò infine mentre la sentinella inarcò un sopracciglio. «Il nostro gruppo sta bene ovviamente. Questo locale è perfetto, ma ancora non abbiamo notizie sulle streghe, le stiamo cercando» affermò portandosi le mani sui fianchi e scrutandolo.

Gidan si sentì sollevato che avevano un vantaggio.

«Zetesis è ancora con quei demoni, l’Oscuro è debole solo perché è astratto, altrimenti avrebbe già spazzato via questa topaia. Il potere dei suoi Spiriti non è ancora ben alimentato e li vuole usare contro le streghe, però sai qual è la novità?» continuò la sentinella.

 Gidan prese in considerazione che erano a conoscenza dello scontro tra il suo capo e uno Spirito. E infatti..

«Il primo Spirito ha catturato un’anima e l’ha data in pasto all’Oscuro. Ora sta cercando di mietere altre vittime, ma ha scoperto che c’è in giro Arum e vuole giocare» spiegò. Come non detto!

Tuttavia non aveva fatto riferimento alla strega.

«E in che modo vuole giocare?» riprese Gidan.

Di tutta risposta l’altro alzò le spalle. «Non lo so, non so altro, io per ora aspetto il ritorno degli altri che sono a caccia delle streghe. Ma perché mi fai queste domande? voi non avete scoperto nulla?»

Gidan si tenne sul vago. «No non molto a dire il vero, ci siamo appostati e aspettiamo. Sai che pure noi siamo a caccia» affermò con decisione, riflettendo sulle risposte che avrebbe dato il vero Ares.

La sentinella lo squadrò. «Ma che stai dicendo? voi avete il compito di trovare un rifugio migliore affinché si possa agire indisturbati e si possano fare riti e incantesimi se necessario!»

Purtroppo Gidan fece fiasco, rischiava di compromettere la sua copertura e in ogni caso, la sentinella aveva parlato anche troppo. Per sua fortuna era un gran chiacchierone, decise quindi di congedarsi per non destare troppi sospetti, se indagavano su questo Ares e scoprivano che non aveva mai parlato con questo tizio, probabilmente non era difficile che Arum ci aveva messo il suo zampino, sguinzagliando il mutaforma.

«Volevo metterti alla prova, ci vogliono tipi svegli a fare da sentinella» disse per dare una risposta pressoché soddisfacente.

L’altro si mise a ridere. «Sempre ironico tu! Meglio che torni alla tua base ora non credi?»

Si scambiarono un gesto di saluto, una sorta di breve inchino come segno di riconoscimento di membri dello stesso clan, per evitare equivoci e soffiate da parte di vampiri nemici.

Dopo aver lasciato il vicolo, Gidan chiuse gli occhi e lasciò liberare la sua energia affinché l’incantesimo s’interrompesse altrimenti non avrebbe avuto l’energia necessaria per sfrecciare verso il suo capo e riferirgli ciò che aveva scoperto. Non era molto, ma meglio di niente.

Ricapitolando, il clan di Zetesis si era suddiviso in tre gruppi, dovevano cercare un nascondiglio con abbastanza energia magica, scovare le quattro streghe e a quanto pare, trovare Arum alias Justin.

Lo Spirito della rabbia stava sicuramente tramando qualcosa, ben presto probabilmente avrebbe attaccato uscendo allo scoperto e cercando altre anime.

Il tempo stringeva quindi, dovevano tenersi pronti.

Si mise a correre con l’energia che gli era rimasta e in una manciata di minuti arrivò all’abitazione dei suoi compagni.

Sotto al palazzo vide una moto parcheggiata, probabilmente avevano trovato la strega di cui avevano parlato.

Difatti quando entrò nell’appartamento trovò il resto del gruppo riunito.

Justin era seduto sulla sua poltrona con un calice in mano, Kimberly si trovava in piedi accanto a lui con aria annoiata, probabilmente l’aveva stizzita nuovamente coi suoi modi, Zell con una sigaretta accesa era seduto sul divano assieme a Kira, intenta a scrivere un sms a Lucy per avvisarla che quella sera non avrebbe potuto chiamarla come d’abitudine, trovandosi impegnata con degli amici.

Quella parola suonava strana in quell’occasione. Amici.

Justin salutò il suo servo con un gesto della mano.

«Ben tornato. Gidan ti presento Kira, la strega elementale del fuoco. Lui è Gidan, il mio supervisore numero due» Sorrise soddisfatto.

Kira alzò lo sguardo dal cellulare e con una semplice occhiata e movimento delle sopracciglia, ricambiò il saluto senza convenevoli né formalità. Gidan prese posto a sedere sulla seconda poltrona e iniziarono a scambiarsi le varie informazioni apprese nella giornata.

Kira finì di spiegare agli altri la sua esperienza come strega e le abilità con il fuoco, promettendo di essere tollerante verso i vampiri e verso la sua nuova sorella. La contraddizione era che infondo la presenza di Kimberly la confortava, se si fosse trovata da sola in mezzo ai tre vampiri, si sarebbe sentita maggiormente fuori posto.

Ci fu una breve pausa di silenzio, poi Justin si rivolse a Gidan, era il suo turno a raccontare. «Allora? scoperto niente?»

Il vampiro si passò una mano fra i capelli per scostare una ciocca che gli cadeva sul viso. «Ho trovato un nascondiglio di un gruppo appartenente al clan di Zetesis. Si sono nascosti all’interno di un bar. Non lo so quanti siano, ho parlato con una sentinella. La cosa preoccupante è che quel posto non è abbandonato, probabilmente hanno catturato i proprietari e restano lì perché li usano come cibo.»

A quell’affermazione le due ragazze fecero una smorfia disgustata. Il vampiro continuò ad esporre tutti i dettagli della sua conversazione con la sentinella e su quel poco che era riuscito a ricavarne. Sebbene le informazioni erano piuttosto vaghe, Justin credette che per il momento era abbastanza.

«Dovremmo attaccare quel covo. Probabilmente è un piccolo gruppetto, non credo che Zetesis manderebbe molti dei suoi servi allo sbaraglio in cerca di un ago in un pagliaio. Lui è forte, abile, scaltro, ma non è in grado di riconoscere una strega con la mia stessa velocità. Si muovono lentamente e questo mi fa pensare che abbiano già un piano, molto probabilmente sono sulle mie tracce e sanno che sto cercando le quattro streghe, per loro sarebbe più facile se il lavoro sporco lo facessi io. Stanno quindi aspettando il momento giusto per attaccare o per fare la prima mossa, ma noi li anticiperemo. Anzitutto come dicevo, sarebbe bene distruggere il gruppo che si è nascosto nel locale scovato da Gidan. Domani stesso, con la luce del giorno che li terrà buoni, Zell e Kira farete un sopraluogo. Sono di basso livello, il sole per loro è ancora troppo dannoso, non credo andranno molto lontano. Studiate la situazione, cercate di capire quanti sono e se hanno davvero preso qualche umano. Se vedete che le possibilità di attaccare ci sono, fatelo! uccideteli tutti fino all’ultimo. Sarà un bel colpo per Zetesis» ordinò Justin riflettendo.

Per Zell il pensiero di dover uccidere altri suoi simili non faceva mai piacere. Non lo fa mai a nessuno, poiché uccidersi fra vampiri non è come uccidersi fra umani.

Ma le rivalità ed i clan esistono e questa purtroppo per loro è una cruda realtà.

Kira invece era entusiasta dell’idea, l’azione la eccitava e nella sua abitazione aveva tutto l’occorrente per sbarazzarsi di quelle creature, ma ebbe il buon senso di tenerselo per sé questo dettaglio.

Poi Justin proseguì. «Io tornerò in quel liceo, devo proteggere questa ragazzina» sbuffò acidulo in direzione di  Kimberly che fu lì per lì per sbottare, ma si interruppe.

«A lezioni finite studieremo un nuovo piano per continuare a cercare le altre due. E non solo cara, non alzare gli occhi che me ne accorgo, domani ti impartirò un paio di lezioni, devi saper usare il tuo potere alla massima perfezione. Siamo intesi?» il vampiro si voltò verso la ragazza.

«Sì, sì. Intesi signor faccio-tutto-io, ho capito» incrociò le braccia per far capire che il discorso era chiuso per quanto le riguardava e si appoggiò al muro, quasi si aspettasse che la predica di Justin le potesse arrivare come uno spintone.

Invece il vampiro si limitò ad ignorare il suo tono di sfida. «Allora è deciso. Eliminato un gruppo di Zetesis avremo un piccolo vantaggio, perché poi saranno di meno e lui di sicuro non avrà tempo di cercare degli umani per trasformarli e arruolarli. Ci aggiorneremo, ora potete andare. Tu no ragazzina, ti riaccompagno io a casa» ordinò infine.

La ragazza si scostò dal muro e sorrise sarcastica. «Allora ogni tanto sei anche gentile» puntigliò.

Il vampiro si alzò e appoggiò il calice sul tavolino. «No ragazzina, ma non vorrei rischiare che ti accadesse qualcosa per compromettere la nostra missione. In caso non te ne sia accorta, il sole è già calato» controbatté arcigno mentre lei sbuffando prese la sua cartellina di scuola e si preparò all’uscio della stanza.

Tutti si salutarono, Kira rifletté sul fatto che il giorno seguente sarebbe dovuta stare in compagnia di Zell per molto tempo, molto probabilmente anzi, avrebbe dovuto combattere insieme a lui.

Una strega ed un vampiro fianco a fianco nella lotta.

Quasi le parve una barzelletta e non poté inoltre rammaricarsi per aver mentito a Lucy e doverle nascondere un ulteriore segreto, maggiore rispetto a quello mantenuto fino a quel momento.

Justin e le due ragazze uscirono dal palazzo, Kira strinse la mano dell’altra facendole l’occhiolino. «Piacere di averti conosciuta stellina e mi raccomando, fai la brava con il grande capo» ridacchiò e con un cenno salutò il vampiro e si mise in sella della sua moto.

Iniziarono la loro camminata verso casa di Kimberly. Poi lei si voltò verso Justin all’improvviso.  «Senti ma.. è una coincidenza che quella ha il nome che inizia con la K? ci stavo pensando prima..»

Il vampiro mantenne la sua aria impassibile e si mise le mani in tasca. «Probabilmente no, perché?» chiese spontaneamente.

La ragazza fece spallucce. «Mah così.. mi è sembrato strano e poi pensaci, se anche le altre due hanno il nome che inizia con la K, allora sarà più facile trovarle. Il cerchio si restringerebbe!» esclamò entusiasta.

Justin quasi si meravigliò di quell’acuta osservazione. «Francamente non ci avevo pensato. Mi sorprende lo abbia fatto tu, ragazzina.»

Kimberly sbottò. «Mi credi davvero stupida?»

Lui abbozzò un mezzo sorriso, pareva quasi un ghigno. «Dipende da te dimostrare il contrario, se credi di non esserlo.»

La ragazza lo guardò con aria truce. «Sei sempre antipatico tu! intanto ho avuto una genialata!» esclamò lei soddisfatta.

Justin decise che era controproducente rispondere a quella che sembrava essere una provocazione, se l’avesse colta probabilmente avrebbero iniziato a discutere nuovamente. Sebbene le parole sembravano quasi penzolare dalla punta della sua lingua, le ricacciò nel pomo d’Adamo. Non aveva nessuna voglia di ascoltare i lamenti striduli della ragazza.

Si sorprese a pensarci un po’ troppo, quella situazione gli era famigliare. Si stava facendo sempre più tardi, prese la mano di Kimberly e sfrecciarono tra le luci e le ombre di San Francisco.

Fino alla sua abitazione.

Si salutarono e Justin si concedette qualche ora di cammino per godersi la luna, prima di fare ritorno al suo appartamento.

 

Kira intanto era rientrata nel monolocale. Accese qualche candela e le fiammelle danzavano obbedienti sotto i movimenti della donna.

Aprì un piccolo armadietto a due ante nella sua stanza e scostò una tenda bordeaux con una trama surreale e sofisticata. In quello spazio vi era allestito il suo altare. Fece una preghiera agli Spiriti del Fuoco e poi aprì un bauletto nascosto sotto all’altare. All’interno vi era un po’ di tutto, ma quello che le serviva erano pugnali, paletti, catene e croci.

Materiale utile alla lotta prevista il giorno seguente.

Dopo una doccia bollente si mise sotto le lenzuola. Era il caso di riposare il meglio possibile e di tenersi pronta. La sua vita era una continua avventura, di certo non si poteva mai annoiare. Ma quella che stava per affrontare era molto più di un’avventura. Lei era protagonista di qualcosa di molto più grande. Spense le candele con uno schiocco delle dita e chiuse gli occhi. La notte avvolse i suoi sogni, fatti di tormenti e frammenti del suo passato e l’accompagnarono fino al mattino seguente.

Cosa l’attendeva là fuori? Di sicuro Kira era pronta a tutto.

Pronta a proteggere tutto ciò che amava.

 


Terza parte: Oscuri legami - Il quinto elemento

CAPITOLO 25


 

Dalle macerie stava risorgendo l’Oakland Bay Bridge.

Dopo la battaglia tra il vampiro Arum e le quattro streghe prescelte contro il demone HeiShin per aprire un portale e rispedirlo nella dimensione dei demoni, il ponte della baia di San Francisco rimase quasi distrutto. Per i primi quattro mesi i lavori procedettero a rilento poiché la polizia stava indagando sulla diciottenne Kimberly Stanford, ricercata per l’omicidio dell’amica Joanna Pierce e per essere evasa dalla prigione prima di un interrogatorio ufficiale in cui il detective Ramson possedeva presunte prove da presentare in tribunale contro la ragazza.

Il detective in quei sei mesi non si diede pace per il caso, interrogò i compagni di scuola di Kimberly, i famigliari, i conoscenti, ma sembrava ormai dissolta nel nulla e nessuno sapeva darsi una spiegazione se fosse stata davvero lei a commettere il crimine.

Le indagini si estesero anche a New York, dove fu avvistata in compagnia di un’altra ragazza di cui identità tutt’ora risultava ignota al detective.

Quella mattina di un martedì di maggio,  stava ancora crogiolandosi nel suo ufficio, nervoso per non riuscire a venirne a capo. Si sedette alla sua scrivania, passandosi le mani tra i capelli brizzolati e massaggiandosi con un tic nervoso il mento di un viso segnato da lievi rughe dei suoi quasi cinquantaquattro anni.

Stava sfogliando i fascicoli del dossier della Stanford.

Una ragazza come tante. Ottima studente, personalità gentile ed educata, socievole. Forse un po’ solitaria. Effettivamente la sua unica amica fu proprio Joanna.

Nessun problema con la famiglia, i genitori erano sempre assorbiti dal lavoro ed il fratellino Alex adorava la sorella maggiore, anche se non lo dimostrava apertamente. Ma allora perché una ragazzina tanto per bene avrebbe ucciso la sua unica amica? Un altrettanto brava ragazza. Perché poi fuggire proprio a New York? Quali collegamenti vi erano? La testa del detective si affollò delle solite domande che lo perseguitavano giorno e notte nei suoi incubi, quando furono interrotti da un insistente bussare alla porta dell’ufficio.

«Avanti maledizione!» imprecò Ramson.

La porta si aprì ed entrarono i suoi due agenti collaboratori, Bradley e Larson. Lo aiutavano col caso di Joanna, molto attenti e scaltri. Bradley e Larson erano due grandi omoni, uno piuttosto paffuto e l’altro magrolino, per questo li chiamavano stucco e stecco.

Bradley appoggiò alla scrivania del detective una busta.

«Il rapporto che aspettava, signore» esordì l’agente a testa bassa, in segno di rispetto per Ramson, un uomo che ammirava.

«Grazie Andrew. Novità?» chiese il detective poco prima di accendersi una sigaretta.

«Sì, signore. Le tracce di sangue rinvenute sul ponte appartengono alla Stanford, ad una persona sconosciuta ed a una certa Karen McCourtney» intervenne Larson.

I meccanismi nella mente di Ramson presero a girare ad alta velocità. «C’è stato un bel casino allora, probabilmente più di quanto ci aspettassimo. Chi sarebbe questa McCourtney? E come mai non si riesce a trovare il nome dell’altra persona?»

A quella domanda prese parola Bradley. «La McCourtney è una ragazza di quasi la stessa età della Stanford ed è di Chicago. L’altra persona alla quale appartengono poche gocce di sangue a dire il vero, sembra inesistente. Non compare in nessun database, nessun diploma o annuario scolastico. Non è registrato nemmeno in qualche carta di credito o altro che potrebbe essere utile per scovare la sua identità, nulla. Un fantasma. Scoprire il nome di quella persona signore, temo sarà davvero difficile» concluse incerto.

«Fatemi leggere il rapporto e poi vi dirò come procedere, potete andare» li congedò il detective spegnendo la sigaretta.

Poco dopo fece capolino dalla soglia della porta Pauline, la segretaria di Ramson.

«Mi scusi detective, posso disturbarla? La porta era aperta» chiese cauta la donna.

«Dannazione! Quante volte ho detto a quei due di chiudere la porta.. non me ne sono accorto Pauline, perdonami. Prego entra, dimmi pure» rispose Ramson togliendosi gli occhiali da lettura, tenendo ancora in mano il rapporto dei due agenti.

«Qui fuori c’è una signora che vorrebbe incontrarla, la faccio accomodare o è impegnato?» la segretaria irrigidì le spalle, pronta a sentire di nuovo il suo capo abbaiare.

Ma non lo fece. «Va bene Pauline, falla entrare. D’altronde credo che non avrei comunque combinato granché qui.»

La donna si congedò con un cenno del capo ed uscì, permettendo alla visitatrice di entrare nell’ufficio. Si presentò così una signorina alta, dai capelli biondi lunghi e folti, occhiali rossi che nascondevano due occhietti neri e vispi, un fisico tonico e slanciato. Indossava una camicetta lilla ed una gonna a tubo in tinta con gli occhiali.

«Buongiorno, mi chiamo Miranda Gordon» salutò la donna presentandosi con fare ammiccante.

Il detective si alzò in piedi per stringerle la mano. «Detective Ramson, piacere di conoscerla signora o signorina Gordon? A cosa devo la sua visita?» con un gesto la invitò a sedersi.

«Signorina, prego. Non mi tratterò a lungo, per cui sarò breve. Sono qui per parlarle del caso Stanford. Sono un’investigatrice privata.»

Ramson inarcò un sopracciglio. «Davvero? Non si direbbe. Quelli impiastri solitamente li riconosco subito!»

La donna abbozzò un sorrisetto. «Se non mi ha riconosciuta allora, probabilmente significa che faccio bene il mio lavoro. Non trova, detective?» la sua voce era calda e sensuale, particolare che non sfuggì a Ramson.

«Ad ogni modo.. chi l’ha ingaggiata?» chiese deglutendo nervoso.

«I suoi genitori. So cosa sta per dire, non gli hanno parlato di me. Infatti vollero mantenere il.. segreto diciamo, per non darle un’impressione sbagliata. Ma capirà, sono ansiosi di trovare la figlia e far luce su tutta la verità della faccenda in questione» spiegò tutto d’un fiato la Gordon.

Ramson capì che la donna richiedeva la sua collaborazione, evidentemente nemmeno lei era riuscita a ricavarne molto. «Ho capito tutto signorina Gordon, non occorre che vada avanti. Ora ho un altro caso da seguire e un appuntamento dal dentista, le può andare bene se ci troviamo domani a pranzo e ne discutiamo?» 

Lei vi rifletté per un momento. «Va bene, come le dicevo avrei anche io una certa fretta. Però preferirei un semplice caffè, verso le 18 di pomeriggio. Che ne dice?» ammiccò infine.

«Un po’ tardi per un caffè, ma se prima è impegnata.. vada per le 18» concluse sbrigativo.

 La Gordon a quella risposta si alzò in piedi. «Perfetto allora, porti il dossier per un confronto, a domani detective Ramson» si soffermò sulle lettere del nome dell’uomo per scandirle in maniera sensuale.

«A domani signorina Gordon.. e grazie» si salutarono con un’altra stretta di mano e tornò alla sua lettura del rapporto, mentre l’investigatrice usciva oscillando sui tacchi e sorridendo compiaciuta.

Quella sensuale figura aveva un qualcosa di insolito secondo il detective, qualcosa in lui sentiva che c’era del losco sotto quella faccenda ed inoltre lei non sembrava affatto quel che dichiarò di essere.

Nella sua lunga carriera di investigatori privati ne aveva conosciuti parecchi ed era in grado di fiutarli con estrema facilità. Ad ogni modo, era curioso di sapere dove l’avrebbe portato quella seducente bionda.

 

Il giorno dopo, Ramson si preparò un riassunto di ciò che avrebbe potuto dire alla Gordon. Decise di rimanere piuttosto sintetico sulle proprie conoscenze del caso.

Quando la lancetta dell’orologio stava per raggiungere le 18, chiamò la donna dal numero di cellulare che aveva lasciato alla sua segretaria e si diedero appuntamento in un bar vicino alla stazione di polizia.

Il detective prese posto a sedere in attesa, senza spiegarsene il motivo percepiva addosso una sensazione negativa, quasi di pericolo. Ma le sue sensazioni di pessimismo lasciarono spazio allo stupore, quando vide la Gordon entrare nel locale. Indossava un abito rosso attillato, piuttosto corto ed esageratamente scolato che risaltava le sue generose curve e tutto il suo aspetto deliziosamente giunonico. Alla faccia della discrezione, pensò il detective.

«Salve signorina Gordon»  salutò il detective quasi impacciato per l’incantevole sfacciataggine di quella presenza.

«Buona sera detective» ricambiò la donna col suo solito fare ammiccante. No, non sembrava affatto un’investigatrice privata. Perché conciarsi in quel modo?

Ordinarono da bere e lei scelse un BloodyMary, altra cosa che insospettì l’uomo.

«Allora mi dica detective Ramson, che cosa ha scoperto fino ad ora?» prese a conversare la Gordon.

«Non perde tempo vedo. Be’ non molto in realtà, la Stanford risulta ancora scomparsa nel nulla. Fu avvistata a New York circa sette mesi fa, in compagnia di una ragazza. I miei agenti hanno trovato tracce di sangue indagando nell’Oakland Bay Bridge, appartenenti ad una certa McCourtney. Una liceale di Chicago.  Sospetto possa essere lei la persona che si trovava a New York assieme alla Stanford, ma ancora non ho capito quale possa essere il collegamento tra le due ragazze o queste città. Forse appartenevano ad una setta o roba del genere. Molti ragazzi di famiglie benestanti si danno a queste cose, di questi tempi» espose Ramson esaminandone il comportamento alla ricezione di tali informazioni.

«Interessante deduzione. Perché proprio una setta?» chiese la donna accavallando le gambe e fissando intensamente negli occhi il suo interlocutore.

«Non lo so, credo sia l’istinto che me lo suggerisce. Anche per il modo in cui è stato rinvenuto il cadavere, che presumo lei già conosca le sue condizioni. Strano liquido verde non ancora identificato che le usciva dai lati della bocca, bah!»

A quell’affermazione la Gordon si ricompose. «Ma certo.. a dire il vero nemmeno io ne so molto di più, tranne per un particolare. La Stanford è stata avvistata varie volte vicino un locale di un malfamato quartiere. Forse quello era una sorta di nascondiglio o luogo di ritrovo per lei e la sua.. setta, ne conviene?»

L’uomo vi rifletté un attimo. «Ha per caso l’indirizzo di questo posto?»

Lei sorrise maliziosa. «Ovvio che sì, non aspettavo altro che andarci con lei, detective Ramson» rispose lentamente, sorseggiando il BloodyMary senza distogliere lo sguardo dall’uomo.

«Mi chiami pure David.. allora che dice, ci andiamo subito?»

La donna a tale domande annuì e poco dopo uscirono dal bar.

«La mia macchina è parcheggiata proprio qui davanti, David.. prego, salga» rispose la donna osservandosi attorno e cercando riparo sotto all’ombra di una colonna dell’edificio che ospitava negozi ed il bar.

«Mi sembra titubante signorina Gordon, forza andiamo» esclamò con fare interrogativo Ramson.

«Certo mi scusi, è che.. non amo molto il sole, ho una pelle delicata. Incredibile che nonostante siano quasi le 19, picchi ancora così terribilmente forte» si lamentò la donna.

Salirono a bordo dell’auto e partirono. Parlarono del caso e della loro carriera, il vestito eccessivamente corto di lei scoprì quasi del tutto le cosce che rapivano di tanto in tanto l’occhio del detective. La Gordon se ne accorse e sorrise ammiccando, in maniera sensuale cominciò a fare apprezzamenti sull’uomo.

«E’ davvero un tipo affascinante per essere un detective, lo sa vero?!»

Lui arrossì lievemente.

«La ringrazio signorina, non ricevevo complimenti da una donna giovane e bella come lei oramai da parecchio tempo. Cosa vuole, sono sulla soglia dei sessanta e non mi sento più piacente come una volta. Ma ad ogni modo è sconveniente entrare in questo argomento, signorina Gordon» si ricompose lui.

«Ma io le ho solo fatto un complimento, un’osservazione.. è lei che continua a parlarne, David» ribatté lei facendogli l’occhiolino.

Non se lo spiegava, ma quella donna aveva un certo fascino magnetico, qualcosa che lo aveva letteralmente smontato e rapito. Non riusciva a ragionare in modo logico, concreto e pragmatico come di solito sapeva fare. Quell’incontro profumava di appuntamento galante, più che di lavoro.

Ma perché aveva questi pensieri? Perché si stava facendo trasportare dal fascino e dalla carica erotica che emanava quella donna? non poteva distrarsi, anzitutto era in servizio, ma poi aveva appena divorziato. Di certo, non sarebbe stato astuto combinare qualcosa proprio in quel momento. Doveva rimanere concentrato, soprattutto sul caso.

«Eccoci arrivati. Il locale è dietro l’angolo» dichiarò la Gordon.

Dopo aver parcheggiato l’auto, si ritrovarono in un quartiere piuttosto isolato e apparentemente tranquillo. Si incamminarono nella direzione indicata dalla donna fino ad arrivare ad un vicolo, all’ingresso poi di quello che sembrava un bar abbandonato ormai da tempo.

Era il locale dove otto mesi prima, circa, Arum ed i suoi compagni lottarono contro lo Spirito della rabbia, uno dei servi di HeiShin.

Ramson esaminò con lo sguardo la vetrata rotta e la porta d’ingresso sistemata alla bene e meglio.

«Qualsiasi cosa sia successa qui, dev’essere stato un bel disastro. Forse un droga party o chissà.. il suo testimone non le ha detto niente?» chiese il detective osservando l’investigatrice.

«No, solo che una volta sentì una violenta esplosione» rispose distratta, come se stesse pensando a tutt’ altro.

«Mh.. entriamo» borbottò lui. Con uno scricchiolio fece aprire la porta.

Il locale era distrutto, sedie e tavoli rivolti ovunque e ridotti a macerie. Pezzi di vetro di bottiglie di liquori sparsi sul pavimento.

«Che razza di disastro» esclamò l’uomo voltandosi verso la donna che di tutta risposta, gli si fiondò addosso e lo baciò sulle labbra. Il detective si irrigidì e tentò di scostarla.

«Ma che sta facendo? signorina la prego si contenga! Stiamo lavorando!» urlò l’uomo tra l’adirato e l’eccitato.

Lei lo fissò dritto negli occhi, molto intensamente. «Rilassati David.. lascia fare a me» sussurrò la Gordon, strofinando il suo corpo a quello del detective e baciandogli nuovamente le labbra. Con un gesto si tolse gli occhiali, lasciandoli liberi da ogni oscura visione dettata da lenti, due occhi profondi di un cremisi scintillante.

Passò la lingua sulle labbra di lui, facendola roteare lentamente e mordicchiandole debolmente. Ramson rimase paralizzato, sembrava quasi sotto un incantesimo, totalmente in balia dell’eccitazione e dalle innumerevoli sensazioni che la donna gli stava procurando con il suo sguardo ed i suoi baci. Il suo cervello quasi si spense, ogni tipo di pensiero fu ibernato.

La donna continuò a baciarlo, ad accarezzargli il viso col soffio del suo respiro, tenendo la bocca socchiusa ad ogni ansimo e gemito che le uscivano. Ad un certo punto lo baciò più intensamente, mentre gli accarezzava il corpo e gli bloccò all’improvviso le braccia. Afferrò tra i denti la lingua di lui e gliela strappò di colpo, un rapido e fortissimo strattone che lasciò Ramson agonizzante.

Cadde in ginocchio urlando di dolore, la disperazione divampò e cercò di toccarsi ancora incredulo dell’accaduto il viso e la bocca.

Gli occhi sgranati.

La donna intanto rimase in piedi davanti a lui, masticando la lingua che ancora teneva in bocca, stretta tra due lunghi canini bianchissimi.

La sputò quasi disgustata. «Bleah.. fumatori» esclamò.

Osservò Ramson dimenarsi a terra come un lombrico, le sue urla divennero flebili mentre il sangue sgorgava copioso dalla bocca come una coppa colma di vino.

Con un calcio sul mento dell’uomo, lo fece stendere e rapidamente afferrò un grosso frammento di vetro dal pavimento e glielo conficcò in un occhio penetrando e disintegrando la sua cavità oculare e poi spinse, fino a forare il cervello.

Ramson esalò il suo ultimo respiro.

La donna si abbassò a leccare i rivoli di sangue che ricoprivano interamente il viso dell’uomo.

«Miranda! Ed a noi non ne lasci?» urlò una voce dal fondo del locale.

«Non è poi tanto buono, ma avevo troppa fame. Scusatemi» rispose lei a due figure che fecero capolino dall’ombra del locale. Erano due uomini, uno piuttosto muscoloso e l’altro più magro, ma dal fisico tonico. Entrambi pelati dalla carnagione diafana e dagli abiti neri di pelle, ricoperti da borchie e spilloni.

Famelici e impazienti, si abbassarono assieme alla donna per cibarsi del detective ucciso.

Li raggiunse un rumore di tacchi. «Certo che vampiri come voi mancano totalmente di classe» esclamò una voce alle loro spalle.

«Ci scusi nostra Signora, ma sono giorni che non facciamo un pasto decente» rispose supplichevole Dagon, quello muscoloso.

«E sia.. fate pure. Ve lo concedo miei umili servitori, ma non dimenticatevi di chiamarmi Regina e non signora. Mi auguro per voi di non dovervelo più ripetere» la voce apparteneva ad una donna anch’ella dalla pelle diafana. Occhi da cerbiatta di un giallo paglierino, trucco pesante, capelli corti platinati. Indossava una camicia in stile vittoriano fermata in vita da un elegante corsetto. Pantaloni attillati di tela ed ai piedi, lunghi stivali in pelle dal tacco vertiginoso.

Alle mani indossava guanti neri ricamati in pizzo ed al collo portava un collare con un simbolo runico. La sua bellezza era drasticamente ammaliante. Ed era una di quelle donne capaci di uccidere con lo sguardo.

«Non capisco per quale motivo questa vampirella tenga solo voi tre come servi» sbottò infine, contemplandosi il corpo.

Il secondo vampiro, quello più magro si alzò e si avvicinò alla donna. «Arleen nostra Signora e Padrona è molto potente, non ha mai avuto bisogno di una grande armata. Noi vampiri siamo pochi qui a San Francisco» spiegò quasi irritato.

«Tu sei Igor, giusto? vedi di mantenere la calma verme, ora sono io qui che comando. La vostra Signora è in mio possesso, quindi sebbene io sia temporaneamente.. Arleen, ciò non toglie che non mi dobbiate rispettare come dovete, senza quindi dimenticare chi sia io in realtà. Sono stata chiara?» rispose lei fulminandolo con lo sguardo.

«Tutto questo è confuso.. perché la dovremo chiamare col nome della nostra Padrona?» osservò Igor.

«Perché così ho deciso e perché così ha deciso il sommo HeiShin, finché rimarremo in questi corpi, assumeremo le identità dei nostri ospiti. Io sono Glasya, potente guerriera degli inferi. E da ora obbedirete a me come si fa con una vera Regina. Ora basta domande, stiamo perdendo tempo. Tu bionda, lo hai portato?» il demone si rivolse infine a Miranda.

«La cartellina con il dossier è dentro la sua giacca» frugò tra gli abiti di Ramson e gliela consegnò.

«Ottimo, quindi a quanto pare non ha scoperto nulla di questo Arum e di voi vampiri. Non ci resta che bruciare questa cartaccia e far sparire il cadavere. Pensateci voi. Percepisco dai ricordi di questa Arleen. Quel Arum è molto potente. Dico bene?»

Intervenne Dagon a rispondere. «La nostra Signora non lo conosce personalmente, ma lo abbiamo osservato combattere con le streghe. Non ha dato dimostrazione di una grande forza, ma abbiamo percepito un’energia impressionante.»

A quelle parole la donna vi meditò. «Interessante. Vedremo se questa volta si scatenerà, non amo le guerre noiose, io» affermò petulante.

Miranda intanto prese il dossier e dopo aver acceso una candela nera, gli diede fuoco. «Queste erano le uniche informazioni principali che avevano sulla mocciosa, ora non potranno più indagare e nessuno potrà arrivare alla verità» aggiunse compiaciuta, mentre gli altri due trasportarono i resti della carcassa del detective nel magazzino del locale.

«Uscite ora» ordinò Arleen.

I tre servi ubbidirono e seguiti dal demone, assistettero alla distruzione del locale. Glasya infatti allungò le braccia e pronunciò poche parole in una lingua sconosciuta ed a quel punto, una nube nera invase il locale.

«Che accadrà adesso?» chiese Dagon.

«Quel fumo nero che vedete poco a poco disintegrerà tutto quello che vi è all’interno, compresi i resti del nostro caro detective, rendendoli un mucchietto di polvere» rispose sorridente della sua vittoria.

Fatto questo, si incamminarono in direzione del termine del vicolo.

Glasya disegnò un cerchio sulla parete a mattonelle di un palazzo, tracciandolo con un’unghia. Fece un passo indietro e pronunciò altre frasi nella stessa lingua antica. Ma non successe nulla.

«Dovrebbe aprirsi un portale, perché non ci riesco?» si chiese il demone.

«Qualcosa non va, mia Regina?» chiese esitante Miranda.

«I miei poteri.. sono limitati. Non capisco se è a causa di questo contenitore o del fatto che sono ancora troppo debole. Ad ogni modo dovremmo trovare un altro mezzo per raggiungere quella città» esclamò visibilmente preoccupata.

Detestava il fatto di non poter usare appieno i suoi poteri e la cosa non era intenzionata a nasconderla.

«La nostra Signora possiede uno yacht potremmo raggiungerla via mare» propose Igor.

«E sia. Cercherò semmai di velocizzare il vostro aggeggio umano con la mia restante energia. Sbrighiamoci, non c’è tempo» si diressero così al porto.

Nel frattempo, nella periferia di Chicago, ben altro stava accadendo. Tra le mura di un palazzo nascosto da un immenso giardino alberato, uscirono strazianti urla. Appartenevano ad un vampiro che si dimenava compulsivamente in un letto, accerchiato dai suoi servitori.

«Padrone Blake, mi sente? Padrone risponda! Ma che gli è preso? Sono ore che va avanti così» esclamò preoccupato il suo braccio destro, Aaron.

«Guardate, quel fumo nero che gli esce dalla bocca» qualcuno indicò una folata di intenso fumo scuro che riempiva le fauci del vampiro.

Questi urlava, con gli occhi velati di bianco, quando il fumo sparì nella sua gola, inghiottito e ne uscì nuovamente dalle sue orbite, colorando gli occhi di nero, per poi diventare gialli. I spasmi del suo corpo rallentarono, cominciò ad ammutolirsi ed i suoi compagni si allontanarono dal letto, percependo il pericolo.

Percependo una forza disastrosa, appartenente senza ombra di dubbio ad un demone.

Questi si placò.

Rimase immobile per qualche secondo, con gli sguardi degli altri vampiri puntati contro, interrogandosi sul da farsi.

Blake, o chi si era impossessato di questi, si guardò attorno spalancando gli occhi. «Ce l’ho fatta! E questo mi sembra proprio un perfetto capo clan, molto molto forte e capace. Dimmi servetto,  come si chiama?» chiese rivolgendosi ad Aaron.

«Si chiama.. Blake.. Signore» rispose balbettando.

«Puoi chiamarmi semplicemente Padrone Blake, d’ora in avanti. Percepisco dai suoi ricordi che tu sei il suo braccio destro, gli altri possono anche andare. Mi servi solo tu» a quelle parole, Aaron fece cenno al resto dei componenti del clan di uscire dalla stanza.

Quando rimasero soli l’individuo riprese. «Io mi chiamo Xaphan, un’ illustre angelo nero del Mondo degli inferi. Ma ai fini della missione, come già ti ho preannunciato, mi puoi chiamare col nome del tuo Signore, ricordandoti tuttavia con chi hai a che fare, intesi?» esclamò minaccioso a quello che aveva tutta l’aria di essere un ordine e non una richiesta.

«Certo, Padrone.. ma perché avete scelto il mio Signore? E quale sarebbe lo scopo della missione? Se mi è concesso porvi tali domande» prese a chiedere il servo, preoccupato della sorte del vero Blake, oltre a quella di se stesso.

«Le domande le rimandiamo a dopo, ti spiegherò ogni cosa. Ora devo cibarmi. I miei poteri sono molto deboli, sento la presenza dei miei compagni, ma non ho sufficiente energia» rispose frettolosamente il demone mettendosi a sedere.

«Volete del sangue? Ne abbiamo di fresco» propose esitante il servo.

«Ma cosa stai vaneggiando, a me serve una deliziosa verginella. Mi nutro di cuori, non di sangue come voi» tempestò Xaphan.

Il diletto si inchinò dispiaciuto in segno di rispetto. «Perdonatemi Padrone, manderò subito alcuni devoti per cercarle una fanciulla adeguata.»

Xaphan si alzò e gli afferrò una spalla con una mano. «Bravo servetto, sento che andremo d’accordo noi due» disse il demone prima di uscire dalla stanza. Blake aveva un fisico possente, dai grossi muscoli e da un viso dall’espressione agghiacciante. Occhi piccoli e vitrei, folte sopracciglia, capelli corvini arruffati e piercing ad ornarli gran parte del viso e del collo. Aveva anche un tatuaggio tribale sulla fronte. Indossava un lungo cardigan di velluto finemente lavorato, sopra ad una camicia nera ed un gilet a righe bianche e nere. Pantaloni in pelle e scarpe nere lucide. Capo clan di Chicago, aveva un discreto potere e forza, proprio come Arleen, capo clan di San Francisco.

Il demone ispezionò il palazzo dove risiedeva il suo contenitore ed i suoi diletti. Un luogo spartano e tranquillo, ottimo nascondiglio. Purtroppo però, non si sarebbe fermato a lungo, dopo aver cenato sarebbe dovuto ripartire e raggiungere il suo capo HeiShin.

Dopo qualche ora infatti, alcuni servi tornarono con una ragazza svenuta, legata e imbavagliata. «Ecco mio illustre Padrone, tutta vostra» esordì Aaron con un inchino.

Il demone scese le scale dell’atrio dell’abitazione e prese in braccio il corpo della ragazza. «Ottimo lavoro servetti, ha un delizioso profumo» si congratulò il demone ghignando compiaciuto ed affamato.

Lo accompagnarono in un salone dove al centro vi era posizionato un tavolo triangolare. Xaphan fece scivolare la ragazza sul tavolo e ordinò ai diletti di lasciarlo solo.

Quando la porta del salone si chiuse alle sue spalle, egli cominciò a slegare i polsi e le gambe della fanciulla. Indossava un lungo abito blu che strappò in un solo gesto. Si abbassò sul collo della ragazza e si inebriò col suo profumo etereo di umana illibata. Cominciò ad accarezzarle con un dito le labbra, scendendo poi lungo il collo, fino al torace. La ammirava estasiato dalla sua purezza, ubriaco del suo odore e del pulsare delle sue giovani vene.

Aprì la mano sui suoi seni e con brutale forza sfondò la gabbia toracica per afferrare il cuore e strapparlo. Nel palmo della sua mano ancora pulsava fumante e bollente, eccitatamente palpitante.

Gli diede una lunga leccata libidinosa con la bava alla bocca, impaziente di sfamarsi, senza però rinunciare al lusso di goderselo fino in fondo. In pochi morsi lo divorò come fosse una polpetta e soddisfatto si leccò le dita per non lasciarsi sfuggire le goccioline di sangue che gli avevano macchiato la mano. Recuperò così parte delle sue energie.

Arterie, terminazioni nervose, legamenti e vene, erano squarciate attorno a quel che ne rimaneva del busto della fanciulla. Il demone si abbassò a berne il sangue come fosse un vassoio e poco dopo, con un rapido gesto delle mani, utilizzando una forza energetica, ridusse il cadavere in cenere.

Richiamò infine i suoi servi per ripulire tutto. «Finito qui esigo che troviate un modo per spostarci, dobbiamo andare.. a New York» ordinò Xaphan al suo fido.

«Ma certo mio Padrone, il Signor Blake possiede un dirigibile. Riferisco immediatamente agli altri diletti di prepararlo» rispose diligente il servo.

«Ottimo, abbiamo una certa fretta e durante il viaggio, avremmo tempo di parlare, mio diletto Aaron» concluse Xaphan congedandosi.

Ultimati i preparativi, il demone assieme al suo seguace e ad altri due, partirono alla volta della grande mela.

Lì erano giunti di già HeiShin e qualcun altro. In forma astrale, ossia non tangibile proprio come il solito fumo nero che li caratterizzava.

Stavano cercando Zetesis e quella fu la loro notte fortunata.

Il vampiro infatti si era recato a New York da solo, senza più nessun seguace ad affiancarlo. Voleva infatti farsi aiutare dal suo Maestro, Zagor, al fine di riprendere possesso dei suoi pieni poteri e di una nuova armata.

Dopo la battaglia con Arum e le quattro streghe, ne uscì piuttosto malconcio e indebolito. Assieme al demone HeiShin difatti, nel portale che si aprì per rispedirlo agli inferi, venne risucchiata anche parte dell’energia diabolica di Zetesis stesso.

Ed in quel momento si trovava proprio nel palazzo del Maestro.

I due si chiusero nella stanza principale per le riunioni di un’immensa villa appartenente al vampiro. Zagor aveva molti secoli sulle spalle e aveva l’aspetto di un signore anziano, in quanto fu trasformato in vampiro dal figlio, quando era in procinto di morire per lebbra. I sintomi della malattia si dissolsero dopo la trasformazione, ma non riprese un aspetto giovanile. Il suo volto infatti era marchiato dalle rughe e da altri segni della vecchiaia. Indossava una lunga tunica viola e rossa. Al collo portava un talismano demoniaco che gli conferiva dei poteri superiori. Capelli e pizzo grigi, contribuivano a denotare la sua età umana.

Capo clan da migliaia di anni, aveva allenato numerosi vampiri che aspiravano all’oscurità. Si fece così un nome importante, figura molto conosciuta tra quelli della sua specie.

Aveva un aspetto piuttosto ordinario e semplice, ma all’occorrenza sapeva schiarare a sé un alone carismatico che non lasciava indifferente nessuno. Inoltre era uno dei tre anziani vampiri degli Stati Uniti. In quel momento era seduto sulla sua poltrona a rimproverare l’allievo.

«Sei un incapace, dopo centinaia di anni passati a insegnarti come combattere, come sopravvivere, come essere forte e spietato.. tu vieni qui a piangere ai miei piedi, perché un povero stolto ti ha battuto un’altra volta. Da quanto la vostra lite tra neonati va avanti?» tuonò il Maestro.

«Mio malefico Maestro, Signore di tutti i vampiri, non ho davvero parole per esprimere il mio rammarico, la mia rabbia verso Arum. Non mi ha battuto, sono semplicemente stato travolto dall’incantesimo delle quattro streghe» spiegò Zetesis inginocchiato di fronte a lui.

«Non ti giustificare, mi fai pena. Dovrò rifletterci sul da farsi dopo questi tuoi errori, queste malefatte da dilettante. Sei sempre stato un problema e Arum non fu da meno. Conosci perfettamente i fatti. Come andò secoli orsono. Non me lo dimenticherò mai» sentenziò Zagor.

Ad un certo punto tutte le candele della stanza si spensero e le finestre si spalancarono, facendo spazio a due voluminose nuvole di fumo scuro. Zetesis afferrò alla mano l’alabarda che utilizzava come arma e si mise in posizione d’attacco.

«Questo fumo.. demoni!» affermò, mentre Zagor adirato si alzò in piedi.

«Ma chi osa?! Che sta succedendo?» esclamò osservando un manto nero che lo ricoprì poco a poco.

Zetesis ebbe dentro di sé un presentimento, quell’aura demoniaca assomigliava molto a quella di HeiShin.

La nuvola di fumo nero che aveva avvolto interamente il corpo di Zagor, cominciò ad entrargli dalla bocca.

Una forza astratta lo costrinse ad aprirla inalando tutto il gas negativo che si impadronì interamente del suo corpo in pochissimi istanti. Gli occhi neri e cremisi del vampiro, divennero di un giallo acceso, tipico dei demoni. Un paio di occhi che Zetesis aveva imparato a conoscere fin troppo bene.

«HeiShin! Sei tu?» chiese esitante Zetesis.

«No, spiacente. Il mio nome è Loquerion, chi tu sai è dietro alle tue spalle ed esige rispetto. Fedeltà. Ed il tuo corpo» rispose lentamente la presenza che si era impossessata di Zagor.

A quelle parole Zetesis si voltò a guardare il restante fumo nero che galleggiava nell’aria. «Come ha fatto a tornare? Che cosa volete da me?» riprese il vampiro allarmato.

«Dovresti saperlo, la questione è molto semplice. HeiShin vuole te. Ha trovato un modo per ritornare qui sulla Terra attraverso un piccolo varco che collega le nostre dimensioni, rimasto semi aperto dal portale che tu stesso avevi aperto. Sarai il suo contenitore e governerete sulla tua razza» sentenziò Loquerion.

«Ma perché proprio io?» il panico rapì Zetesis.

«Per vendetta, stolto! Tu hai osato disobbedirgli, ricordi? Si era ribellato a te poiché anzitutto avevi osato evocarlo per scopi che si addicono più a lui che ad un misero essere come te. Inoltre, non hai fatto nulla per aiutarlo contro le streghe, te ne stavi in disparte con quell’altro bifolco, lasciandolo in balia delle prescelte» continuò il demone.

«Non avevo altra scelta, Arum mi avrebbe comunque messo i bastoni fra le ruote!» si giustificò il vampiro preparandosi all’attacco.

«E’ inutile che ora cerchi scuse e che ti prepari a lottare, non hai altra scelta che quella di farti possedere dal sommo Oscuro e di farti guidare dalla sua volontà» rispose beffardo Loquerion.

Il fumo nero avvolse rapidamente Zetesis, che urlando e imprecando cercò di dissolverlo con l’utilizzo della sua arma, ma senza successo. In pochi istanti, come per Zagor, il suo corpo fu interamente invaso dall’essenza demoniaca di HeiShin.

Nella sua testa, Zetesis cercò di ribellarsi, ma il demone ebbe la meglio sebbene ciò richiese una certa spesa di energia.

Cadde a terra per lo sforzo.

Loquerion, ovvero Zagor, gli si avvicinò per aiutarlo a rialzarsi.

«Tutto bene HeiShin? Siete voi?» chiese al compagno.

«Sì Loquerion, non preoccupatevi. Sto bene, non dovreste nemmeno chiedermelo. Questo pivello pensava di farla franca, ma ora finalmente è mio! Sono tornato e otterrò ciò che voglio, oh credetemi, sarà così!» esclamò vittorioso il demone.

«Che cosa facciamo ora? Glasya e Xaphan staranno arrivando e poi ci cercheranno» disse Loquerion.

«Certo, ma auspico che ci troveranno da soli. Intanto ricordatevi che finché saremmo in questi corpi, assumeremo i loro nomi. Tu sarai Zagor ed io Zetesis, intesi? Nell’attesa dell’arrivo dei nostri compagni, direi che sarebbe saggio rimetterci in forze. Qui di sicuro ci sarà del sangue. Andiamo a sfamarci e vediamo un po’ se il vostro contenitore ha dei servi migliori di quelli che aveva il mio» concluse HeiShin.

«D’accordo sommo Oscuro, dalle sensazioni di questo corpo comunque, direi che la sua schiera è piuttosto numerosa» aggiunse il demone seguendo l’altro verso l’uscita della stanza.

Spalancarono la porta di un altro salone, dove almeno una cinquantina di vampiri stava brindando con del sangue d’annata, da calici dorati.

Cantando e danzando su note di musica folk metal.

Uno di loro, nell’entrata in scena del suo Padrone, spense la musica e gli si avvicinò. «Ci sono problemi, Master?»  chiese esitante il devoto scrutando gli insoliti occhi gialli di Zagor.

«No, nessun problema. Ma io e il qui presente abbiamo un importante annuncio da fare» a seguire quelle parole, HeiShin salì sopra al grande tavolo della stanza e vi si posizionò al centro osservando il notevole gruppetto. «Ascoltatemi bene, branco di larve ripugnanti. A partire da questo momento, qui comando io. Voi mi vedete come il vostro conoscente Zetesis, ma in realtà sono HeiShin. Sommo e potente samurai demoniaco tornato su questo infido mondo col fermo intento di governare la razza dei vampiri. Sarò l’unico sovrano dell’intero pianeta, plasmerò le menti dei mortali, li renderò umili schiavi e oggetti della razza dei vampiri, che dovranno sottostare ad ogni mio singolo volere. Attraverso i media, veri e propri guru per gli esseri umani, attraverso le mode e le propagande piegherò la società del genere umano ai miei piedi e collezionerò tutte le loro anime ogni qualvolta avrò fame. Questo è il mio volere, questa è la mia vendetta. Ad aiutarmi ci sarà il mio braccio destro, Loquerion, che ha avuto il piacere di impossessarsi della magnificenza del vostro capo. Quindi d’ora in avanti sarà lui il vostro Zagor. Abbiamo tuttavia bisogno di cuori umani e di anime soprattutto, per far salire di livello le nostre energie e voi tutti ce le procurerete. Oltre a questo e all’ascesa al potere però, avremmo tutti una missione molto importante da compiere. Sbarazzarci di un certo Arum e di quattro putride streghe elementali. Mi hanno imprigionato una volta, ma non ricapiterà. Sono stato chiaro?» in tutta la sala regnava un silenzio assordante.

Tutti i presenti si inchinarono al cospetto di HeiShin alias Zetesis e con devozione esclamarono in coro la loro devozione. «Ai vostri servigi, nostro sommo ed unico Padrone e Signore del Male.»

A quelle poche parole di rispetto, HeiShin si sentì dentro di sé più potente che mai. Scese dal tavolo e raggiunse Loquerion.

«Bene è fatta, ora sono tutti nostri schiavi e sicuramente ce ne saranno altri. Voi prendete informazioni da quello di prima, io perlustro questo posto.. speriamo che gli altri non tardino a raggiungerci» concluse per poi uscire in silenzio dal salone.

Il palazzo non era grande come sembrava dall’esterno, ma era composto da tre piani ed era situato poco distante la periferia di New York.

HeiShin uscì nel giardino e guardò il cielo. Il rumore di un motore rapì la sua attenzione. Era un dirigibile. Il demone sorrise, percependo l’aura del suo compagno Xaphan alias Blake.

Finalmente almeno uno era giunto.

Quando il veicolo si abbassò per atterrare in uno spiazzo dell’immenso giardino, HeiShin percepì anche un’altra aura, quella di Glasya alias Arleen. Dunque entrambi ce l’avevano fatta.

Poco dopo i quattro demoni si riunirono nel salone del palazzo.

«Avete fatto piuttosto presto ed a quanto pare vi siete scelti due capi clan niente male, complimenti miei prodi» si congratulò HeiShin.

«Ho percepito l’aura di Glasy.. pardon, di Arleen in uno yacht che stava raggiungendo la città e così l’abbiamo caricata nel dirigibile ed abbiamo fatto il prima possibile, sommo Oscuro« spiegò Xaphan.

«Mi raccomando, ora ci chiameremo solamente coi nomi dei nostri contenitori. Ad ogni modo, esattamente in quanti sono i vostri servi?» continuò il loro capo.

«Con me ce ne sono solo tre mio Signore, mentre con Blake ce ne sono quattro, ma molti altri a quanto pare a Chicago» prese parola Glasya.

«Esatto, almeno una trentina» annuì l’altro.

«Perfetto, qui ce ne saranno almeno settanta, dunque.. novantasette servi. Non è male.» osservò HeiShin.

«Ma riusciremo a spostarli tutti quanti coi pochi mezzi che hanno?» chiese Loquerion.

«Un modo lo troveranno.. percepisco i ricordi di questo stolto, Arum si trova quasi sicuramente a Los Angeles. Dobbiamo raggiungere quella città, trovare un posto al sicuro da usare come base operativa e poi fargli sapere che siamo arrivati. Ma in maniera esemplare, mi spiego?» il suo tono era maligno ed eccitato.

«Siete stato chiarissimo sommo Oscuro, dovremmo fare il possibile per mietere anime ed avere una nostra entità. Non mi piace stare in questo vecchio» ribatté Loquerion.

«Quello è un compito che spetta a Blake ed Arleen, solo loro sono in grado di assorbire anime. Dico bene?» il sommo Oscuro si rivolse agli altri due.

«Per quello non c’è problema, contate su di noi» affermò Glasya.

«E allora non c’è altro tempo da perdere, abbiamo tempo solo fino alla prossima luna piena. Radunate tutti i devoti, si parte.. Arum, stiamo arrivando» esclamò HeiShin con un ghigno compiaciuto, impaziente di compiere il suo volere di vendetta.

 

 

 

CAPITOLO 26

 

 

 

 

 

 

La natura canticchiava, nella verde e lussureggiante Benedict Canyon, distretto di Los Angeles. Tra le magnifiche ville di attori e cantanti famosi, boschetti e collinette, in un piccolo angolino si nascondeva discreta, una radura molto fitta che ospitava al suo interno la sontuosa villa di Arum Kingsdale.

La sua abitazione era composta da quaranta stanze, tra le quali anche da letto ed uno studio, quattro saloni, tre bagni, un’immensa cucina, campo da golf, da cricket ed una piscina e chi più ne ha più ne metta. Una giornata intera non basterebbe per visitarla interamente e ci sarebbe da rimanerne sbalorditi per lo sfarzo e l’eleganza che solo un personaggio raffinato come Arum, poteva sfoggiare.

Sguardi indiscreti e presenze indesiderate, si tenevano lontani con la fitta vegetazione della radura e da un incantesimo di protezione, il quale aveva innalzato attorno a tutta la villa, una barriera magica di energia.

Dopo la battaglia contro HeiShin, Arum tornò alla sua abitazione portandosi con sé le quattro streghe. Ovviamente, Kimberly viveva con lui alla villa e tutto andava per il meglio, proprio come entrambi sperarono. Questo almeno i primi mesi di convivenza, quando i due sembravano vivere una favola romanzesca destinata ad essere inflitta nell’universo come un marchio. Sarebbe stato sempre così? di certo i due ci credevano con tutte le loro forze, spinti dal grande amore che provavano e che li legava come un sottile nastro di seta. Il loro amore era nato con un colpo di fulmine tra i banchi del liceo di San Francisco, dove Arum si trovava in missione per cercare le quattro streghe prescelte, compresa Kimberly.

L’aspetto era quello di un ventenne pressappoco, ma aveva centinaia e centinaia di anni che sembravano fin troppi, messi al confronto con l’età della ragazza. La differenza però non si faceva sentire molto, poiché veniva oscurata dal fatto che il vampiro non era abituato da troppo tempo ad una presenza femminile nella sua quotidianità.

L’amore tra i due era maturato ed unito profondamente nel momento in cui Arum con la sua essenza, rese Kimberly una vampira a tutti gli effetti, subito dopo la sua morte per mano di HeiShin. Avere una parte di lui nel suo corpo, una parte della sua linfa vitale, aveva sviluppato in Kimberly delle emozioni e dei sentimenti d’amore per quel vampiro, semplicemente unici.

Ebbene sì, una nuova vita si era creata per lei che finalmente poteva essere totalmente considerata da una persona che la amava più di se stesso e la ricopriva di attenzioni fino all’eccesso, a differenza della sua famiglia. Genitori addetti al lavoro come se fosse la loro unica ragione di esistenza.

Il vampiro con la ragazza era piacevolmente premuroso, galante nei modi, dolce nel starle affianco. Si dimostrava oltretutto straordinariamente comprensivo nel suo modo impacciato di gestire la sua nuova identità. Le ci vollero infatti almeno tre mesi, per abituarsi totalmente ai sensi di vampira.

A cominciare dalla straordinaria forza fisica, la vista più acuta, l’udito più fine, i sensi anche intimi sviluppati almeno il triplo rispetto a quelli umani. I brucianti raggi del sole, nemico per la pelle troppo sensibile all’intensità di quella luce. La costante, pulsante ed impetuosa fame che graffiava brutalmente ogni fibra della ragazza.

Sì, Kimberly aveva iniziato un tortuoso cammino, reso però più semplice dal suo amato che faceva di tutto, pur di non farla sentire a disagio. Ad allenarla quando lui si vedeva impegnato in faccende di lavoro con altri vampiri o in cose in cui lei non si volle immischiare, ci pensava Luxor, altro tenente del clan. Arum quindi aveva regalato a Kimberly non solo una nuova vita, completamente diversa da quella di prima, ma anche una vera e propria opportunità di essere finalmente amata come meritava.

Da canto suo, Arum fu fortunato ad incontrarla ed a innamorarsene poiché nel suo io più recondito, stava affogando anche l’ultima scintilla di sentimento d’amore che poteva provare nei confronti di una donna. Dopo la morte dell’ex moglie avvenuta per mano di Zetesis, il vampiro promise a se stesso di guardarsi bene dall’innamorarsi nuovamente e ciò capì che era uno sbaglio.

Quella freschezza, quella tenerezza che gli aveva trasmesso la ragazza gli donò un nuovo smalto, fece risorgere con estrema rapidità una parte di lui assopita, incatenata dal dolore, dalla furia, dai ricordi di Cassandra. In poco tempo, l’amore per la ragazza lo aveva completamente smontato e rimesso a nuovo, come se qualcuno lo avesse preso disfatto e come un bambolotto, ricomposto a nuovo. Un Arum del tutto diverso, ancora sorridente ed affabile. Se tutto ciò non fosse accaduto, il cuore del vampiro sarebbe sprofondato in un abisso profondo, tra mura insormontabili a cerchiare il suo cuore condannandolo così ad un’esistenza solitaria.

Che senso aveva essere immortali e non provare più nessun piacere per l’esistenza stessa? Quale scopo egli aveva per andare avanti, senza inebriarsi ancora una volta di un sentimento così puro e fondamentale per ogni soggetto, che sia umano o vampiro?

Interrogativi che Arum spesso si poneva e che lo straziavano. Prima di conoscere Kimberly infatti, era tormentato dal dolore del passato e dal futuro, preoccupato per la sua sorte ed allo stesso tempo rassegnato. Si era chiuso in se stesso celandosi dietro un velo di apatia, di arroganza ed indifferenza verso qualunque cosa.

Ma dentro scoppiava, quasi ogni giorno.

Camminava con aria maestosa al cospetto dei suoi diletti, ma quando si trovava solo, si limitava semplicemente a strisciare. A scivolare tra le ore delle notti, a schiacciare i pensieri nel sonno dei momenti diurni.

Come se non bastasse questo tormento che coltivava nel suo cuore, gli impegni come capo clan e come potente figura tra la sua razza, lo assorbivano e lo stressavano più di quanto mai avesse voluto.

Infatti, non affrontava più le missioni e le questioni politiche o sociali dei vampiri, col suo solito entusiasmo ed il fare da perfetto leader che gli si addiceva impeccabilmente.

Ma grazie a Kimberly tutto era cambiato.

Per merito della ragazza aveva ripreso ad essere l’uomo di sempre, quello che aveva ancora un valido motivo per accettare tranquillamente la sua immortalità.

Che non aveva il cuore inflitto da spilli avvelenati.

Che non affrontava il lavoro e gli ostacoli quotidiani con estenuante malavoglia, ma gli abbatteva a pungi stretti e a sorriso sfavillante sul viso.

Ma il fantastico idillio fiabesco nell’ultimo mese si inclinò. Sebbene si amassero come prima e forse anche un po’ di più, a causa di incomprensioni soprattutto, le cose tra loro si erano leggermente increspate. Difatti quel pomeriggio di fine maggio, Arum si era chiuso nella sua stanza a meditare. Seduto sul letto coi gomiti sulle ginocchia, osservava a sguardo perso al di fuori della portafinestra che dava ad un angolo di giardinetto.

Ad un certo punto si sentì bussare alla porta e stancamente, con aria distratta, il vampiro diede il permesso di entrare.

Si presentò così Zell.

«Vi disturbo, mio Signore?» chiese il seguace visibilmente preoccupato per l’umore del suo capo.

«No mio diletto, entra pure.. e dimmi cos’è accaduto questa volta» il suo sguardo era spento.

«Non è accaduto nulla mio Signore, ero impaziente di consegnarvi questa lettera di ringraziamenti da parte di quel gruppetto di neo vampiri che avete aiutato la settimana scorsa. Ve li ricordate, vero?» chiese Zell quando vide l’uomo assorto nei suoi pensieri.

«Certamente Zell.. me li ricordo.. mi dispiace, ma al momento non ho la mente concentrata per questo genere di cose. La leggerò più tardi, puoi tranquillamente lasciarla nel mio studio» tagliò corto Arum.

«Come volete voi mio Signore, ma permettete una domanda?» azzardò il devoto.

«Ho già capito cosa vuoi chiedermi e la risposta è sì, ho litigato stamattina con Kimberly. E la colpa è solo mia.. purtroppo, come accade spesso in questo ultimo periodo» rispose tristemente il vampiro.

«Me ne volete parlare? Rammento che ascoltarvi anche in questo genere di problemi, resta pur sempre un mio compito» propose Zell.

«Hai ragione. Ebbene siediti» fece cenno il vampiro indicando una sedia accanto al letto.

«I sentimenti che provo per Kimberly sono oramai cuciti nel mio cuore e nulla, dico nulla, potrebbe assolutamente smuoverli. Ci siamo imbattuti in diverse occasioni in qualche malinteso e bisticcio poiché lei è scioccamente lunatica e discordante, io invece sono diventato col tempo molto più.. lo sai mio diletto, ho un certo fare pragmatico. Ho dimenticato in parte come ci si rapporta con una donna e di questo me ne vergogno. Proprio io! mi comprendi Zell?» si interruppe per dar modo all’interlocutore di rispondere.

«Ma certo mio Signore, voi siete un giovane ragazzo.. o meglio un uomo, molto fine e raffinato che ha sempre saputo rapportarsi in maniera impeccabile col gentil sesso. Non riesco a comprendere però quale sia il dramma.. le incomprensioni ed i litigi tra innamorati sono una cosa piuttosto naturale, non vi sembra?» rispose cauto Zell.

«Certo che sì mio diletto, ma tutto ciò non è da me. Il problema è proprio questo. A volte ho risposto a Kimberly con un tono esageratamente grave, quando in realtà il mio comportamento è abitualmente pacato e controllato. Mi faccio cogliere quindi da emozioni che generalmente neanche mi appartengono» abbassò lo sguardo rammaricato.

«In effetti ultimamente vi percepisco in qualche modo diverso. Questo è negativo, ma non dipeso dagli screzi con Kimberly, ma dalla vostra mancanza di potere. Quel che sapete e la vostra condizione, vi sta ripresentando e vi sta facendo pagare il conto» affermò il devoto.

«Tu dici che è per quello? ne ho avuto anche il sospetto, mentirei se affermassi il contrario. Non sono stolto da pensare che in una relazione con una donna non vi possano essere alti e bassi, d’altronde ne ho avute parecchie e ho vissuto un matrimonio. Mi sono quindi perso in un bicchiere d’acqua mio diletto, me ne rendo conto» riprese il vampiro.

«Ma sono certo che questo non è tutto. Nuovi pensieri vi stanno turbando» sentenziò Zell.

«Noto con piacere che non ti sfugge nulla, mio caro vecchio Zell. In effetti proprio oggi mi soffermavo a riflettere sulla situazione. Ho fatto bene a trasformare Kimberly? questo credo abbia leggermente influito sulla sua personalità. E poi, sta nascendo in me la paura che un giorno io possa perderla. Non ho mai avuto paura fino ad oggi, non ci avevo nemmeno mai pensato. Perché?» Arum fissò negli occhi l’altro.

«Tutto questo è buffo.. la ragazza che si sta oscurando per la sua condizione di vampira ed il vampiro che si sta umanizzando travolto dalle emozioni umane. Mio Signore, non vi state rendendo conto che state adottando un comportamento tipico da ragazzo ventenne umano. Avere paura è normale, soprattutto dopo quello che vi è successo con lei. Per quanto riguarda la personalità di Kimberly, sapete meglio di me che le ci vorrà del tempo considerando che è diventata una vampira da qualche mese. Per il resto invece, la vostra confusione a mio avviso, resta dovuta alla tua mancanza di energie.. di potere, che vi rende completo. Non ha quindi nulla a che vedere con la vostra relazione in sé» concluse Zell.

«Parlare con te mio diletto mi ha fatto riflettere molto. Credo che tu non abbia affatto torto, le mie paure e le mie confusioni sono dettate principalmente dal fatto che.. che tu sai. Con Kimberly devo semplicemente chiarire una volta per tutte. Tu mio caro Zell sei un po’ troppo algido a mio parere, non credo che il mio comportamento sia eccessivo poiché lei è diventata il mio tutto, ella mi completa» si alzò in piedi. «Puoi andare mio diletto, porta la lettera nel mio studio. Io vado a cercare la mia amata.»

Zell sorrise. «Lieto di avervi fatto riflettere, mio Signore» si inchinò al cospetto del suo capo ed infine, uscì rapidamente dalla stanza.

Ma Zell aveva ragione, le sue angosce ed i suoi dubbi non erano dettati dagli insignificanti attriti che di tanto in tanto si creavano tra i due amanti, quanto per il fatto che mancava di energia.

Averne solo il 50% dentro di sé, lo stava rendendo emotivamente debole, quasi instabile. Rifletteva sul da farsi mentre si sistemava con cura i capelli e la camicia nera decorata con merletti e pizzi pregiati. Si sentiva impaziente di parlare con l’amata e di risolvere definitivamente la questione con lei.

Ci teneva troppo.

A causa sua, la mente si stava perdendo e questo non poteva permettere che interferisse con la sua relazione d’amore. Doveva controllarsi, ritrovare il suo armonioso equilibrio.

Intanto in un’altra stanza, Kimberly si stava lamentando con Luxor del comportamento burbero di Arum in quei ultimi giorni.

«Non capisco davvero cosa gli prenda, Luxor! Ogni tanto sembra quasi un’altra persona e la cosa un po’ mi spaventa.. poi stamattina abbiamo litigato per una sciocchezza, e sai quale? Volevo a tutti i costi sapere cosa tiene nascosto sotto alla villa! Sai, quella porta che c’è giù nel salone e porta a boh.. una cantina? Detesto abbia segreti con me! non lo sopporto proprio..»

Il seguace l’ascoltava impassibile. «Milady, Lord Arum vuole semplicemente proteggervi. Sono sicuro che chiarirete la faccenda, non vi nasconderebbe mai nulla, statene certa» disse in tono rassicurante.

Luxor era un fidato collaboratore di Zell, così si unì dopo un po’ di tempo, assieme al compagno, nel clan di Arum e si dimostrò un devoto alleato ed un ottimo combattente. Aveva un carattere tuttavia pacifico, non incline allo scontro.

Molto alto e longilineo, aveva capelli neri con un taglio ordinato e baffetti. Occhi piccoli e vitrei di cui uno verde acido e l’altro cremisi. In quel momento indossava uno smoking nero e viola.

La ragazza si sedette su un pouf. «Per oggi basta allenamenti Luxor, scusa ma mi sento stanca» sospirò.

«Va bene Milady, se avete bisogno di qualcosa suonate il campanello. A dopo» si congedò Luxor.

Dopo che il seguace fu uscito dalla stanza, prese lo smartphone e cominciò a sfogliare le foto di lei qualche tempo prima e della sua famiglia. Quante cose erano cambiate da allora, sia lei come persona, sia il suo aspetto.

Infatti per mascherare la sua identità alla gente, aveva abbandonato le parrucche e si era direttamente tinta i capelli di un nero dalle sfumature blu notte. Aveva accorciato leggermente la lunghezza dei suoi capelli ed il viso lo aveva semicoperto da una lineare frangetta che risaltava i suoi occhioni blu mare. Anche nell’abbigliamento era cambiata, rinunciando alla divisa del suo vecchio liceo o ad abiti ordinari, preferendo abiti più sofisticati e dallo stile dark o vagamente gotico che Arum le regalò.

In quel momento indossava infatti un abito nero ed elegante in perfetto stile gotico vittoriano, con tanto di merletti finemente lavorati, guanti infradito di preziosa seta, calze velate di un grigio scuro e scarpette con un vistoso nastro di raso nero. Per un attimo accantonò il pensiero della famiglia lontana e sorrise felice del fatto che si sentiva al sicuro nella villa di Arum, lui si prendeva totalmente cura di lei, mente e corpo. La proteggeva e non avrebbe potuto desiderare altro che essere al centro del mondo di qualcuno.

Solo qualche mese prima la sua vita era monotona, quasi sempre sola a casa o ad occuparsi del fratellino pestifero, oppure con la sua unica amica Joanna che poi aveva perduto per sempre. Arum era il suo tutto, era la persona che avrebbe desiderato per il suo futuro, nonostante nella sua innocenza aveva amato un altro ragazzo.

Si era convinta che era meglio così, probabilmente quella fu un’esperienza dovuta. Un’esperienza da umana che la portava ad una maturazione del suo essere, prepararla al fatto che da quel momento non era più una semplice ragazza, ma qualcosa di più.

Improvvisamente sentì la mancanza del vampiro, della sua dolce presenza, dei suoi abbracci in cui poteva affogare ogni pensiero negativo, luogo che poteva chiamare seriamente casa.

Una manciata di minuti dopo percepì i suoi passi. Proprio in quel momento bussarono alla porta della stanza ed entrò Arum.

«Piccola.. posso parlarti?» chiese timidamente il vampiro.

«Ma certo.. perché così afflitto?» chiese preoccupata la ragazza.

«Pensieri.. ma ti volevo parlare di questa mattina, mi scuso per il comportamento di questi ultimi giorni, non volevo ferirti..»

Kimberly non gli diede il tempo di finire la frase che si alzò e lo abbracciò teneramente. «Ho già capito e non preoccuparti, ho anche io le mie responsabilità in merito.. ti chiedo scusa amore mio» si guardarono negli occhi e si scambiarono un dolce e lungo bacio.

«Tutto a posto allora?» chiese lui sorridendole.

«Tranne che per una cosa! non mi piace che hai dei segreti con me, sembra quasi che tu non ti fida» proseguì la vampira.

«Comprendo la tua curiosità circa il contenuto dei fondali della villa, ma lì sotto non c’è nulla che ti possa in qualche modo.. riguardare personalmente. Non è che non mi fido, non riesci proprio a capire che voglio semplicemente proteggerti!» esclamò Arum.

«Sono riuscita a capirlo, ma proteggermi da cosa? che ci tieni là sotto di così tanto pericoloso da dovermi addirittura proteggere? Ti rammento che sono anche per metà strega» continuò Kimberly.

«Lo rammento perfettamente mia amata, solo che.. ti prometto solennemente che a tempo debito ti svelerò cosa c’è oltre quella porta, al momento non è importante te lo posso garantire» mentì il vampiro.

«Non sono certa sia esattamente così, ma va bene.. io prometto di non insistere più sull’argomento… e ora mio bel tenebroso, baciami» sussurrò infine la ragazza stringendosi al vampiro. Si baciarono con bruciante passione, lui la strinse ancora più forte a sé e le accarezzò il corpo sinuoso, per poi prenderla fra le braccia e dirigersi verso la loro camera da letto.

Proprio in quel momento Zell, Luxor e Spike si riunirono nell’atrio della villa.

«Sono preoccupato per il nostro Padrone, ve lo dovevo dire» cominciò Spike.

«Anche io, sono certo che la causa del suo umore altalenante sia.. ciò di cui abbiamo già discusso» rispose Zell.

«Milady ne risente parecchio, per questo litigano spesso ultimamente e francamente non ce la faccio più. Con quella vocetta stridula mi fa esplodere la testa» si lamentò Luxor.

«Suvvia ora, torniamo ai nostri compiti e cerchiamo di stare accanto ad Arum il più possibile, prima che perda completamente la bussola» concluse Zell. Si scambiarono una rapida occhiata d’intesa e tornarono alle loro faccende.

 

Intanto quella sera, Lucy tornando a casa trovò una deliziosa cenetta preparata romanticamente da Kira.

«Bentornata stellina, come sono andati oggi gli studi?» chiese amorevolmente la donna.

«Wow amore, hai cucinato tu! bene comunque, ti ringrazio» rispose la ragazza dandole un rapido bacio a stampo sulle labbra e appoggiando sul divano la cartelletta di scuola.

«Come vedi, non me lo dimentico mai» continuò Kira.

«Hai ragione, il nostro anniversario te lo ricordi sempre! sei una donna fantastica!» esclamò Lucy gettandole le braccia al collo e baciandola una seconda volta con maggiore trasporto. Si sedettero a tavola e consumarono il pasto, conversando sulla loro giornata.

Kira e Lucy vivevano in una deliziosa casetta a Bel Air, altro distretto di Los Angeles, vicino a quello di Arum e Kimberly. Fu lo stesso Arum ad acquistargliela per permettere alle due ragazze di vivere insieme. Infatti a San Francisco tempo prima, Kira lasciò il lavoro come bigliettaia in un cinema, mentre Lucy lasciò il liceo per seguirla.

Sempre con l’aiuto del vampiro e con alcuni soldi racimolati nel tempo, la donna riuscì ad aprire un negozio esoterico, permettendole così di percepire uno stipendio dignitoso e continuare a pagare gli studi alla fidanzatina Lucy.

Tra le due c’era un bellissimo rapporto, la diciottenne aveva molta influenza sulla donna dal carattere difficile. All’inizio fu titubante a trasferirsi poiché a differenza di Kira rimasta orfana, Lucy a San Francisco aveva lasciato la sua famiglia. Ma quando cambiò idea non se ne pentì ed inoltre non si ritrovò sola a frequentare il liceo di Bel Air, poiché lo frequentava assieme a Karen.

Sebbene le due avessero un anno di differenza e quindi frequentavano corsi e classi differenti, fu per entrambe un sollievo ritrovarsi insieme.

 

Proprio in quel momento, Karen si trovò in compagnia di Kate. Le due ragazze condividevano lo stesso appartamento, una casetta ai confini di Bel Air acquistata coi soldi di Kate. Quest’ultima, molto orgogliosa, rifiutò tutto l’aiuto da parte di Arum che insistette nel volerle offrire almeno un lavoro e così le fece aprire un bar/ristorante dove oltre alle persone comuni, potevano frequentarlo  tutti i seguaci di Arum e altri vampiri della zona, senza doversi preoccupare troppo di far attenzione a non dare nell’occhio tra gli umani.

Col tempo Kate si ricredette sulla razza dei vampiri. Sebbene da bambina le avevano portato via il padre, conoscendo Arum ed il suo clan, capì che non erano tutti malvagi, ma al contrario.

Non vi è una maggior parte di vampiri buoni e una di maligni, entrambi coesistono, ma la donna apprezzò ed accettò il fatto che almeno quelli buoni esistevano e li aveva potuti conoscere. Strinse così una bella amicizia sia con Arum, ma anche con Spike e Luxor.

Con Zell ebbe parecchie difficoltà all’inizio, ma alla fine andò d’amore e d’accordo anche col braccio destro di Arum.

Infatti Zell aveva un carattere molto chiuso e riservato, la sua discrezione lo rendeva impenetrabile.

In quel momento Kate si stava preparando proprio per recarsi nel suo ristorante, avrebbe dovuto aprirlo e dare via alla festa. Proprio di notte che si affollava e il motivo appare scontato.

«Vieni a farti un giro questa sera? Magari ci sarà anche Kimberly» propose all’amica.

«No grazie, rimango a casa a studiare per domani. Ho un tema in inglese. E poi Kim mi ha scritto un sms dicendomi che stasera avrebbe avuto.. altro da fare, mi spiego?» chiese facendole l’occhiolino.

«Hanno litigato di nuovo e fatto pace una volta per tutte.. chiarissimo! Allora io vado, a domani Karen» si salutarono con un abbraccio e Kate uscì. Chiamò un taxi e si fece accompagnare vicino al luogo di lavoro, in quel momento si accorse di Kira davanti l’entrata del ristorante.

«Sei già arrivata» disse Kate senza emozione.

«Sì, ho lasciato Lucy a casa con una scusa e sono corsa.. mi preoccupa ciò che mi hai detto» affermò Kira.

«Dai entriamo, abbiamo 10 minuti prima dell’orario d’apertura, ti spiego tutto» rispose Kate aprendo la porta del locale. Accese le luci e Kira si mise a sedere al bancone del bar, mentre l’altra cominciò a sistemare nervosamente tazzine e scatoloni con merce per il ristorante.

«Lo hai detto a Karen?» riprese furtiva Kira.

«No, troppo emotiva.. e lo sai» rispose Kate.

«Avanti maledizione, parla! Che è questa premonizione che hai avuto?» continuò l’altra.

«Praticamente ho visto.. be’ diciamo percepito, la presenza di quel HeiShin» esclamò Kate fermandosi e scandendo le parole.

«No non è possibile.. come avrebbe potuto fare a tornare?» il primo pensiero di Kira volò sull’incolumità di Lucy. Se il demone fosse tornato veramente, avrebbe dovuto proteggerla a tutti i costi, dato che nella prima battaglia, uno degli Spiriti al servizio del demone la rapì con l’intenzione poi di ucciderla.

«Non ne ho idea, magari quel Zetesis è ancora vivo e lo ha richiamato per vendicarsi di noi e di Arum» azzardò la ragazza.

«Mah può anche essere.. hai fatto bene a dirlo prima a me, in un certo senso delle quattro sono sempre stata la leader. E poi Arum è sempre irraggiungibile..»

 Kate finì la frase. «E Kim è da escludere.. pure lei è molto emotiva rispetto a noi due» concluse.

«Non dobbiamo però ignorare la cosa, se è vero che quel bastardo è tornato, manderò Lucy alla villa di Arum che è ben protetta. Intanto quando arriveranno i suoi seguaci sarà meglio avvisarli» sentenziò Kira.

«Hai ragione, se vedo Spike glielo dirò a lui.. o a Zell»riprese Kate, con tono più calmo.

«Senti un po’ bionda.. ma.. Zell? Com’è che quando lo hai detto sei diventata mezza rossa?! » esclamò prontamente Kira.

«Ehm.. eh? ma che dici! Ma quale rossa! Lasciami lavorare ora che devo aprire» tagliò corto la ragazza sorridendo.

La reazione di Kate insospettì Kira. Le era forse davvero indifferente Zell?

Kira si alzò in piedi e salutando l’amica uscì dal locale, doveva tornare a casa dalla fidanzata il più velocemente possibile.

Considerando la premonizione di Kate, non avrebbe più lasciato sola Lucy finché si fossero accertate che il demone non era tornato per davvero.

Rincasata, trovò la compagna già a letto. «Hai fatto presto» salutò Lucy.

«Che ci fai già a letto? Ti senti male?» chiese Kira avventandosi sulla ragazza.

«No.. no sto bene, sono solo un po’ stanca per lo studio. Ma che cos’hai? Sei così agitata» la ragazza si mise a sedere ed accarezzò il viso di Kira.

«No piccola, scusa.. ho solo.. il fatto è che è bello averti qui. Vivere insieme, stare con te sempre.. non voglio che ti accada nulla, ho fatto un errore in passato non dicendoti che sono una strega, non voglio commettere altri errori.. non me lo perdonerei, non vivrei» i suoi occhi si velarono di lacrime, tutta la sensibilità di Kira stava per straripare come un fiume in piena.

«Ho capito.. è successo qualcosa. Ti ha detto qualcosa in particolare Kate o qualcun altro?» chiese la ragazza fissandola negli occhi ed accarezzandole le gote. Com’è che riusciva a leggerle dentro in quel modo?

«Per proteggerti non te lo dovrei dire dannazione.. ma non posso questa volta.. e va bene, Kate ha avuto una premonizione. Dice che ci potrebbe essere la vaga possibilità che HeiShin possa essere tornato o che possa accadere in un breve futuro.. lo ha come al suo solito percepito» spiegò la donna.

«Davvero? Quel demone che avete affrontato e sconfitto? Ma come potrebbe… cioè.. è possibile che sia realmente tornato?» si spaventò Lucy.

«Non lo so.. può darsi.. con una nuova invocazione.. supponiamo che quel Zetesis sia ancora vivo e lo abbiamo richiamato per vendicarsi o qualcosa del genere» continuò Kira.

«Ho paura amore.. per te, per me, per tutti» confidò la ragazza.

«No piccola, ci sono qua io a proteggerti.. questa volta ti prometto che sarà diverso, non ti accadrà nulla! Vedremo sul da farsi, c’è anche la possibilità che Kate si sbagli, magari ha avuto solo un incubo.. ma mi raccomando, acqua in bocca con Karen e Kim» precisò infine la donna.

«Ma scusa, non glielo volete dire? ne avrebbero il diritto.. e Arum?» si strinse forte a Kira.

«Kate informerà Arum, ma le ragazze sono troppo emotive, vogliamo per ora lasciarle fuori da questo sospetto.. poi vedremo e sono sicura che Arum sarà d’accordo con noi.»

Lucy abbassò lo sguardo. «Sì è probabile.. però secondo me non è giusto» obbiettò.

Kira le accarezzò i capelli e le diede un tenero bacio sulla fronte. «Riposati ora amore e non ci pensare.. alla peggio, ti porterò alla villa di Arum dove sarai al sicuro da ogni pericolo!»

Lucy non abbandonò l’espressione preoccupata. «Io sarò protetta.. ma tu?»

«Io ho i miei poteri! chi mi ferma!» sorrise Kira.

Lucy non parve molto convinta, ma decise di rimandare quella conversazione. Insistere non sarebbe stato prudente, avrebbe sicuramente agitato entrambe, ma nasceva in lei con fermezza la decisione di rivelare la cosa a Karen. Se tutte loro sapevano, sicuramente si sarebbero potute difendere meglio in caso ciò fosse tutto vero.

O almeno, quello fu lo stretto pensiero della ragazza.

Il giorno dopo infatti sostò davanti all’entrata del liceo per attendere l’amica. Quando la vide le corse incontro.

«Ciao Karen! Ti devo parlare di una cosa importante» salutò la ragazza.

«Ciao Lucy! cos’è successo? sembri turbata» ricambiò l’altra.

«Si tratta in effetti di una cosa.. “magica”, sai che intendo!» rispose Lucy.

«Uhm certo.. allora forza, entriamo e parliamo» concluse Karen sbrigativamente.

Entrarono nel cortile della scuola, tempo a disposizione prima che iniziassero le lezioni ne avevano a volontà e così si sedettero su una panchina appartata. «Mi raccomando però, che resti fra noi. Kira e Kate non devono sapere che te ne ho parlato, va bene?» riprese Lucy.

«Va bene, non ti preoccupare» rispose la ragazza senza espressione.

Lucy spiegò così l’accaduto alla compagna, parlandole anche delle sue paure e perplessità al riguardo.

«Secondo me è giusto che lo sappiate anche tu e Kim, per questo ho deciso di dirtelo.. insomma, meglio che siate pronte non credi?» terminò Lucy guardando il volto dell’amica che mutò totalmente espressione.

«Non è possibile.. impazzirei se fosse davvero così! non ricordi come mi aveva ridotta la prima volta? Ero finita all’ospedale a pezzi.. letteralmente» piagnucolò costei.

«Sì che me lo ricordo, io e Kira eravamo venute a trovarti.. poverina! Ma a maggior ragione, mi sembra giusto che anche tu sappia di questa possibilità! A quanto pare sei comunque forte come stre.. ehm hai insomma dei poteri forti, non dovresti preoccupartene più del dovuto» cercò di confortarla Lucy. «Parli facile te che sei semplicemente una ragazza come tante.. è vero che posso cavarmela, ma ciò non significa che non abbia paura.. ne dobbiamo parlare anche a Kimberly, verresti con me a trovarla questo pomeriggio?» pensando alla compagna strega, Karen si calmò leggermente.

«Ma certo che ti accompagno! Mi annoierei a casa da sola, anzi Kira voleva proprio che io stessi in compagnia di qualcuno.. dopo le scriverò un sms» annuì la ragazza alzandosi in piedi.

«Ora vado altrimenti faccio tardi, a dopo!» si salutarono con un gesto della mano e si divisero per iniziare rispettivamente la loro giornata scolastica.

 

Durante la mattinata, alcuni seguaci del clan di Arum riferirono al vampiro ed a Zell ciò che Kate aveva percepito nella sua premonizione. Quella notizia oramai si espandeva tra di loro come un virus, agitando tutti, compreso lo stesso Arum.

«Ma allora se ciò è vero, significa che vi sia un’alta probabilità che Zetesis sia ancora vivo e che stia per procedere all’attacco» esclamò quasi incredulo il capo clan.

«Come pensate di procedere mio Signore?» chiese Zell allarmato.

«Voglio alcuni uomini al porto, sicuramente arriverà con l’Endless. Voglio anche tutti i rapporti sugli altri distretti di Los Angeles, se hanno visto o sentito qualcosa di insolito. Poi decideremo il da farsi in caso si presentasse qualche problema.. dopotutto, abbiamo le streghe ed il Sigillo di Kronos dalla nostra» ordinò il vampiro rivolgendosi ai suoi seguaci che si congedarono con un inchino di rispetto.

«Non vorrei rischiare di sembrare sfrontato, ma nonostante la vostra affermazione sulle streghe, sono convinto che non vi allieta il pensiero che ci siano proprio loro a combattere, dico bene mio Signore?» riprese Zell.

«Certo che no, sono più che preoccupato per Kimberly! infatti non so ancora come glielo dirò.. sarà un bel colpo per lei» rispose Arum abbassando lo sguardo, assorto alla sua riflessione.

«Francamente se posso permettermi mio Signore, al momento finché nulla è certo, a mio avviso non avete motivo di riferirglielo, col rischio di turbarla per niente. Sbaglio?» propose il devoto.

«A pensarci bene hai proprio ragione, come sempre! non c’è bisogno di dirglielo finché rimane un sospetto.. se accadrà qualcosa, gliene parlerò.. nel frattempo infatti rifletterò sulle parole da usare per avvertirla del pericolo» rispose Arum sorridendo sollevato.

«Ottima scelta mio Signore, ora perdonatemi ma ho del lavoro arretrato da svolgere nello studio» disse Zell prima di salire le scale nell’atrio della villa. Arum lo guardò di spalle, si sentiva sollevato di avere un alleato come lui. Ma il pensiero tornò ben presto da Kimberly.

Perché doveva ricapitare? Si augurò con tutte le forze che la premonizione di Kate fosse fasulla.

 

Nel frattempo la stessa Kimberly, aveva appena terminato una sessione di allentamenti con Luxor.

«Complimenti Milady, migliorate ogni giorno!» si congratulò il servo.

«Grazie mio caro Luxor! Mi sento splendidamente infatti!» esclamò entusiasta la vampira.

«Ora però facciamo una pausa, d’accordo? Vado in cucina a bere dell’acqua per ricaricarmi» Kimberly uscì dalla stanza degli allenamenti e si diresse verso la cucina, scrutando verso l’atrio, Arum che usciva dalla villa.

Ciò significava che all’interno c’erano solo lei e qualche seguace, non avrebbe forse percepito dall’esterno i movimenti. Decise pertanto di afferrare al volo una bottiglia d’acqua e di correre verso il salone che ospitava la porta della stanza misteriosa. Sebbene fosse una vampira, aveva comunque bisogno anche dell’acqua per mantenere attivi al massimo i suoi poteri e di ricaricarsi al meglio.

Bevette un lungo sorso dalla bottiglia, osservando la porta in questione.

«Sicuramente qualcosa la protegge, un incantesimo o altro.. sa bene che con un calcio ora potrei sfondarla. No, non dev’essere così semplice» rifletté a voce alta.

Si avvicinò e afferrò la maniglia della porta, ma si scottò. La maniglia sembrava incandescente, opera indubbiamente di un incantesimo.

«Dannazione, scommetto che è stato Zell.. ha sempre una soluzione quello» imprecò la vampira.

Esaminò più da vicino la maniglia finemente lavorata, ma nulla dava modo di sospettare che fosse avvolta dalla magia. Forse il materiale era argento, ma allora nemmeno Arum avrebbe potuto toccarla e quindi scartò a priori quell’ipotesi. Un modo per aprirla ci doveva essere per forza, magari doveva solo scoprire il modo per raggirare l’incantesimo di protezione e decise di farlo andando ad esaminare lo studio di Arum, dove avrebbe trovato anche gli appunti del fido Zell.

Ma quell’intenzione dovette rimandarla, rumore di passi la fece sussultare e con un balzo sfrecciò di corsa verso l’altro lato del salone, uscendone con cautela.

Era intenzionata a tutti i costi ad aprire quella porta.

L’impazienza e la curiosità le impedivano di attendere che fosse lo stesso Arum a rivelargliele il contenuto.

Ma altre menti impazienti, furono ben più turbate in quel momento ed erano i quattro demoni, quasi giunti a Los Angeles.

«Quel bifolco forse ci sta addirittura aspettando, sa bene che questo corpo possiede una nave» rifletté HeiShin.

«Ma sommo Oscuro, come potrebbe mai scoprirlo?» chiese incredulo Loquerion.

«Perché una delle streghe ha il potere della premonizione. Magari avrà già percepito la nostra energia» spiegò il demone.

«In ogni caso non importa, stiamo arrivando dall’alto» affermò Loquerion, certo di essere in vantaggio.

«Infatti, non si aspetta che utilizziamo un dirigibile» rispose ghignando HeiShin.

Infatti i quattro demoni in compagnia dei servi di Blake ed Arleen, giunsero in città a bordo del dirigibile di Blake raggirando così la possibilità di essere notati al porto. Quello lo avrebbero utilizzato in altre occasioni, ora avevano altre priorità, tra cui quella di passare il più inosservati possibile, nonostante quasi di certo Arum o altri avrebbero prima o poi percepito parte della loro energia o di quella degli ospiti che li contenevano.

Glasya si avvicinò a HeiShin. «Sommo Oscuro manca ancora molto? Io ho fame, non si fa attendere così una signora. Quel bastardo di Xaphan ha già mangiato!» si lamentò la donna.

«Taci tu, aspetterai come facciamo tutti! Sei sotto i miei ordini bellezza, non te lo dimenticare» rispose il demone.

«Ciò non significa che devo morire di fame però!» obbiettò lei.

«Ti ho detto di tacere! Non manca molto, abbiamo altre cose da fare prima di poter dare sfogo ai nostri istinti» sentenziò lui senza possibilità di replica. Glasya si rassegnò, tornandosene a sedere coi suoi seguaci in preda ad una crisi isterica.

«Pensate che ci darà problemi?» chiese Loquerion osservandola.

«Mah vedremo, intanto ci serve. Semmai la daremo in pasto alle streghe come esca» rispose tranquillamente l’altro.

Il dirigibile sorvolava sui cieli della città. Dovevano solo decidere dove atterrare.

 

Nel frattempo, quel pomeriggio fecero visita a Kimberly, le due amiche Lucy e Karen. Si salutarono con un abbraccio amorevole.

«Mi dispiace che abbiate dovuto prendere l’autobus, se mi avvisavate mandavo qualcuno a prendervi» esclamò Kim.

«Sei gentile, ma volevamo essere discrete.. ti dobbiamo parlare, da sola. In privato» aggiunse Karen.

«Dal vostro odore percepisco che siete preoccupate e che avete paura.. presto entrate» rispose la vampira.

«Sei inquietante quando fai così! non ti si può nascondere nulla» obbiettò Lucy con un sorriso.

«Scusa è che mi ci sto ancora abituando e poi mi serve per allenarmi. Non è nemmeno facile rimanere svegli durante le ore diurne, ma sto facendo del mio meglio» ribatté Kimberly chiudendo la porta d’ingresso e accompagnando le amiche nella sua stanza.

La loro pelle emanava ancora quell’intenso odore che fece trasalire la vampira, perché tanta preoccupazione?

 

 

 

CAPITOLO 27

 


 

Kimberly accompagnò le due amiche Karen e Lucy nella sua stanza, quella per gli allenamenti. Considerando l’aria preoccupata delle due, sicuramente l’argomento sarebbe stato delicato e importante, opportuno quindi tenerlo lontano dal fine udito degli altri vampiri.

Davanti alla porta della stanza c’era attento Luxor.

«Puoi portarci il tè per favore?» chiese Kim al vampiro.

«Ma certo Milady, arriva subito» rispose obbediente il servitore.

«Che bello Kimberly, nonostante hai tutti questi servitori al tuo comando, chiedi ancora per favore.. ti fa onore» osservò Lucy.

«Be’ il fatto è che non ci sono abituata e non chiederlo mi sa di maleducazione.. su forza, accomodatevi» la vampira chiuse la porta alle sue spalle e prese a sedersi su una poltroncina.

«Allora, di che cosa volevate parlarmi?» chiese impaziente.

«Sicura che possiamo parlare tranquillamente qui? e se Arum ad esempio ci sentisse?» ribatté Karen.

«E anche se sentisse? Comunque non c’è.. è uscito» si rabbuiò Kim.

«Forse riguarda quel che stiamo per dirti» disse Lucy scambiandosi un’occhiata con Karen.

«Insomma vi decidete a sputare il rospo? Non fatemi stare in ansia!» sbottò Kim, accorgendosi proprio in quell’istante che Arum non le aveva fatto presente che usciva, quindi non aveva idea di dove potesse essere, sebbene ipotizzò che la sua uscita riguardasse un qualche lavoro da capo clan.

«Il fatto è che Kate ha avuto una premonizione» cominciò Karen spiegando alla vampira tutta la faccenda della presunta ricomparsa di HeiShin.

«Mi state quindi forse dicendo che Kate ieri sera ha informato i seguaci di Arum? Dunque glielo avranno sicuramente riferito! E lui ne è al corrente!» esclamò con sorpresa e rammarico Kimberly. «A me infatti non ha detto assolutamente nulla.. non capisco il motivo!» continuò con rabbia.

«Forse è per come diceva Kira, sei troppo emotiva e la cosa ti avrebbe particolarmente scossa.. voglio dire.. con quel che ti è successo» rispose Lucy cautamente.

Ma la questione demone non scosse particolarmente la vampira, i suoi pensieri si concentrarono unicamente su Arum ed il suo fare occultatore. Perché tanti segreti? Il contenuto ignoto della stanza misteriosa, la presunta ricomparsa del demone, il fatto di abbandonare la villa senza avvertirla. Si sentiva profondamente delusa.

Lucy lo percepì da una strana luce nei suoi occhi. «Che cos’hai Kim? Dì qualcosa!» la incoraggiò.

«Non so che cosa dire ragazze, non è che mi preoccupa più di tanto questa cosa di HeiShin, dopotutto è solamente una supposizione! Il fatto è che Arum continua a nascondermi le cose e questo non lo sopporto proprio.. è stato sempre sincero ed onesto con me, ma da qualche tempo sembra così cambiato» rispose la vampira abbassando lo sguardo velato di lacrime.

«Sicuramente non te lo ha voluto dire per lo stesso motivo di Kira con me.. ovvero ti vuole solo proteggere! Questa è una prova d’amore Kim, non fare così» cercò di consolarla Lucy.

«Infatti è assai protettivo, però.. non lo so, c’è qualcosa in lui che non va, me lo sento! Ogni fibra del mio corpo me lo sta urlando che qualcosa in Arum è cambiato» affermò Kimberly mentre la porta della stanza si aprì e la costrinse a terminare il discorso.

Era Luxor col vassoio del thè.

«Ecco qua, Milady» annunciò il vampiro.

«Luxor! Hai.. hai per caso sentito qualcosa?» chiese timidamente Kimberly.

«Milady, sebbene il mio udito è molto buono, vi posso assicurare che negli ultimi dieci secondi si è inspiegabilmente arrestato» rispose lui facendole l’occhiolino. Evidentemente non si voleva impicciare ulteriormente nelle questioni tra lei ed il suo padrone, in considerazione del fatto che quasi ogni giorno la giovane donna lo tartassava di parole positive o negative su Arum. «D’accordo Luxor.. puoi andare» ordinò lei infine.

Le tre ragazze si scambiarono un’occhiata d’intesa.

«Ci è andata bene» sospirò Karen.

«Che cosa pensi di fare ora Kim?» chiese Lucy abbracciandola.

«Non lo so, sarei tentata di dirglielo, ma metterei nei guai voi due.. perciò aspetterò, magari sarà lui a farlo» rispose in tono apatico la vampira, ancora delusa.

«Sono sicura che andrà tutto bene tra voi, siete splendidi insieme ed il vostro è un amore.. magico! In una relazione non può filare sempre tutto liscio, anche con Kira ho avuto i miei problemi.»

«Ti ringrazio Lucy, sei tanto dolce! Ad ogni modo, a parte questo, dovremmo tenerci pronte.. d’accordo Karen?» si rivolse alla compagna strega.

«Ma certo, io non mi sono allenata molto in questo periodo.. chi cavolo si aspettava che quello potesse tornare! Secondo me dovremmo fare un incantesimo per potenziare i nostri poteri» propose.

«Non hai tutti i torti, ma lo dovremo fare in caso sia vero e con la presenza anche delle altre, non trovi?» coinvolgere le altre due compagne secondo la vampira sarebbe stato più onesto.

«Non hai torto, però loro secondo me sono anche più forti, non ci mettono le nostre stesse emozioni nei poteri» rispose Karen riflettendoci.

«Ed è qui che ti sbagli! Siamo noi le più forti perché non dimenticare mai che la magia nasce anzitutto dalle proprie emozioni, quelle più intime» l’ammonì Kimberly. Passarono ad argomenti decisamente più lieti sorseggiando la bevanda.

Accumulare liquidi per Kimberly sarebbe stato un bene, avrebbe provveduto a mantenere attiva la sua parte di strega.

Dopo di che, si salutarono.

Il pomeriggio era trascorso fin troppo velocemente e per le due ragazze si stava facendo tardi.

«Mi raccomando Kimberly, stai serena con Arum.. non te la prendere con queste cose, ricordati che non ti farebbe mai del male.. lo sento» sussurrò Lucy abbracciandola nel saluto.

«Grazie cara, cercherò di non pensarci» ribatté la giovane ricambiando l’abbraccio.

Uscite dalla radura e incamminandosi verso la città, Karen all’improvviso si bloccò. Lucy le si parò davanti allarmata, il volto dell’amica aveva un’espressione indecifrabile.

«Che cos’hai? Ti senti bene?» le chiese strattonandola. Karen non rispose, ma guardò in alto. Un dirigibile sospetto stava sorvolando il cielo.

«E’ solo un dirigibile Karen, che ti prende?» continuò Lucy in preda al panico per la reazione della ragazza.

«Lì.. ahh» gemette Karen sentendo una morsa allo stomaco.

«Ti senti male? Vuoi che torniamo indietro e avvisi Kimberly?» chiese Lucy accarezzandole delicatamente la schiena.

«No, mi fa male il plesso solare perché.. ho percepito un’enorme carica negativa. Ho una sensazione bruttissima» rispose Karen guardandola negli occhi, con una lacrima che le rigò il viso.

«Vuoi dire che hai sentito qualcosa di.. malvagio?» Lucy ipotizzò dentro di sé di che cosa si potesse trattare.

«Sì.. alla villa non ci siamo accorte di nulla forse perché c’è la barriera o perché è passato di lì soltanto ora.. non lo so, so solo che in quel.. coso, c’è qualcuno di potente e cattivo» la ragazza  si rialzò in piedi.

«Non è da sottovalutare questa cosa, secondo me è meglio parlarne con Kate e Kira» propose Lucy aiutandola a stare in equilibrio.

«Hai ragione.. diremo loro che siamo andate a farci una chiacchierata con Kimberly, nulla di più.. e che casualmente è capitato questo.. infondo non è una bugia, omettiamo solo di sapere quella cosa.. okay?» l’idea di Karen le parve buona all’altra.

«Su allora forza andiamo, raggiungiamo casa vostra» concluse Lucy tenendola per mano e incamminandosi in direzione della fermata del bus.

 

Quella sera si riunirono tutte e quattro nel ristorante di Kate ed ogni coppia spiegò l’accaduto. Ovvero la premonizione della strega e l’episodio della forte sensazione di Karen.

«Probabilmente secondo me, hai avuto quella sensazione perché erano in cielo. Collegati con l’aria, quindi ti è stato facile percepirli» ipotizzò Kira senza giri di parole.

«Nonostante questo però non possiamo ancora essere certe del tutto che si possa trattare di HeiShin, anche se le probabilità sono molto alte» ribatté Kate.

«La cosa strana però è che si trattava di un dirigibile, mentre l’altra volta si spostavano con una nave» osservò Karen.

«Infatti, ma quel Zetesis avrà cambiato mezzo per chissà quale motivo.. oppure proprio perché Arum conosce le sue abitudini e vuole quindi farsi furbo!» continuò Kira, sebbene non parve molto convinta. Zetesis non dava l’impressione di essere particolarmente astuto.

«In ogni caso, Arum ed il suo clan ne sono al corrente, noi dobbiamo solo stare tranquille e continuare con le nostre cose, al resto ci penseranno loro.. fuori ora, devo aprire il locale» esclamò imperativa Kate.

Le altre tre amiche uscirono per accompagnare Karen a casa.

«Posso stare da voi stanotte? Scusate, ma di stare sola non me la sento» chiese imbarazzata quest’ultima.

«Non ti preoccupare, vieni pure» rispose con un sorriso Lucy.

 

Nel frattempo alla villa, Kimberly si sentì triste e terribilmente smarrita per le cose che aveva appreso quel pomeriggio. Anzitutto, se il demone era tornato davvero, come lo avrebbero fermato questa volta? E sebbene fosse una vampira, avrebbe comunque potuto ucciderla, stavolta per sempre? rabbrividì a quei pensieri, non migliori di quelli rivolti ad Arum.

Perché continuava a nasconderle le cose? La delusione prese il sopravvento e le lacrime le riempirono gli occhi. Tra loro la situazione si era leggermente inclinata e questo non se lo aspettava.

Si riprese in fretta però, poiché una forte sensazione la fece tornare alla realtà. Dopotutto, lei era una ragazza molto razionale, nonostante la sua piccola parte emotiva.

A tutto c’è una spiegazione e se Arum si comportava in quel modo, una spiegazione giustificabile ci doveva essere.

Ma era una spiegazione positiva per loro due, o negativa? Doveva dirglielo o aspettare? La scelta risultò più ardua di quel che potesse sembrare.

Si asciugò le lacrime e si ricompose, quei contorti ragionamenti pessimistici potevano aspettare, in quel momento voleva solo riabbracciare il suo amato. Percepì difatti la presenza del vampiro all’interno della villa.

Uscì dalla sua stanza per andargli incontro. Lo trovò a confabulare con Zell.

«Salve, che state combinando?» esordì la vampira.

«Amore mio.. perdona l’ora tarda, ma oggi ho avuto parecchio lavoro da sbrigare. Pratiche per dei neo vampiri in un distretto dall’altra parte della città» si giustificò Arum.

«Non ti preoccupare, amore, capisco che hai molti seguaci a cui badare» rispose il più serenamente possibile lei, stampandogli un bacio sulle labbra.

«Ora vi lascio soli miei Signori, mi ritiro nelle mie stanze» salutò Zell sbrigativamente.

Arum prese per mano la vampira ed entrarono nella loro stanza.

«Mi dispiace davvero di averti trascurata quest’oggi, sono dovuto uscire di corsa senza nemmeno salutarti» lo sguardo dell’uomo era talmente sincero che intenerì Kimberly.

«Lo so.. mi sei mancato tanto! Ma non dartene pena, mi sono venute a trovare Karen e Lucy» spiegò la giovane stringendosi fra le sue braccia.

«Davvero? Ottimo, almeno hai avuto compagnia» sorrise lui, baciandole il capo.

«Mi ha fatto bene una pausa dagli allenamenti.. Luxor dice che sto migliorando sempre di più, vedrai come sarò brava in battaglia» esclamò con eccessivo entusiasmo la vampira.

«Battaglia? Ma amore non ci sarà nessuna battaglia, suvvia.. non più, perché non lo permetterò! E poi a proteggerti ci penserò io, tu non dovrai più combattere!» la consolò abbracciandola e baciandola con passione.

Intanto i pensieri di lei tornarono sulla notizia appresa dalle ragazze.

«Non lo puoi dire con sicurezza, magari prima o poi dovremmo ancora lottare ed io voglio che tu sia fiero di me!» affermò con un sorriso.

«Ma io sono già fiero di te piccola, per come sei dentro e fuori.. sei la perfezione, tutto ciò che ho sempre desiderato. Sei la parte di me che mi completa» a quelle parole però, il vampiro sentì un brivido lungo la schiena. No, non aveva solo bisogno di Kimberly per completarsi, ma le parole gli uscirono di getto, spinte dall’amore che provava.

«Sei sempre così dolce e buono.. anche io non potevo desiderare una vita migliore.. ops, vita.. be’ hai capito» ridacchiò lei impacciata.

«Ma certamente, anche la nostra è pur sempre una vita sebbene non abbiamo un muscolo che batte.. solo che è preferibile definirla esistenza» rispose lui sorridente. Perfino il suo modo di essere goffa lo inteneriva e lo eccitava al tempo stesso.

«Ti amo Arum, promettimi che non cambierai mai con me» quelle parole suonarono bizzarre al vampiro, ma ignorò la sensazione.

«Ti amo anche io piccolina, ti va di uscire?» propose lui, ispirandosi ai vecchi tempi. Da quanto non rimanevano soli a contemplare la luna?

Abbandonarono la villa e si inoltrarono nella radura  raggiungendo un grande albero, testimone di molti momenti romantici tra i due. Si tenevano ancora per mano quando calpestarono le sue radici. Prendendo energia sulle gambe, fecero un balzo in avanti e saltarono sopra ad un ramo. Si sedettero sotto ai deboli raggi lunari.

«Tra un paio di giorni ci sarà la luna piena, pensi di farcela questa volta dopo l’allenamento?» chiese il vampiro abbracciandola e dandole un leggero bacio sulla guancia.

«Penso di sì, non ci saranno problemi» dichiarò la giovane distrattamente.

Si riferivano al fatto che dopo la sua trasformazione, Kimberly ebbe seri problemi a gestire i suoi poteri durante le notti di luna piena poiché la sua natura di strega andava in contrasto con la condizione di vampira, liberando un’energia dalla potenza disastrosa. Provocò in diverse occasioni allagamenti e nubifragi dall’impeto inaudito. Ma con il proseguire degli allenamenti per controllarsi, i sintomi andavano migliorando, affievolendosi.

«Che bello stare qui.. sai cosa mi fa pensare?» Arum la strinse più forte a sé.

«Al fatto che sono fortunato ad essere stato l’ultimo ad averti festeggiata il giorno del tuo compleanno» sorrisero insieme, all’unisono.

«Hai ragione, è un momento che dovremo ricordare, quest’anno festeggeremo non il mio compleanno, ma il nostro primo e vero bacio» rispose riflettendo Kimberly, osservando l’anello che portava al dito, regalo di Arum per quell’evento che con letizia ricordavano.

«Non mi piace discutere con te, spero che la nostra sintonia ed empatia cresca e maturi assieme a noi.. perché infondo, ci sono tante altre cose da conoscere di te» le stava contemplando il viso, turbato dalla sua malefica bellezza.

«Arum, le basi della nostra storia le abbiamo messe, ma.. detesto che tu mi nasconda le cose.. ecco tutto, non torniamo in questi argomenti.. non ora» rispose Kim decisa, pensando agli ultimi avvenimenti di quei giorni. In cuor suo il vampiro si sentì in colpa di nasconderle la faccenda di HeiShin e di mentirle, ma non aveva altra scelta. A suo parere.

«Non pensiamoci più d’accordo, voglio solo renderti felice Kimberly, penso che tu lo sappia» annunciò lui accarezzandole il viso e in tutta risposta, la vampira lo baciò con la dolcezza disarmante che solo lei sapeva sfoggiare.

Le prime luci dell’alba strappò ai due innamorati la notte, ricca di coccole, ricordi e sospiri.

Fecero ritorno alla villa ancora tenendosi per mano, come due ragazzini perdutamente cotti l’uno dell’altra. La postura elegante di lui, la sua classe, il suo charme, la sua aria apatica vennero sopraffatte da un entusiasmo adolescenziale, poiché messo a nudo da una miriade di sensazioni che la giovane gli procurava in fondo al cuore, mantenendolo sotto ad una nuova luce.

Si ricompose solo alla vista di Zell.

«Mio Signore, buon riposo. Io vado a perlustrare alcuni distretti.. buon riposo anche a voi, Milady» salutò il devoto.

«Fai attenzione, mio diletto» salutò Arum mentre entravano nella villa. Kimberly sorrise, felicitandosi del fatto che Zell si sarebbe allontanato, lasciando così lo studio libero.

Quel giorno avrebbe indagato sulla porta della stanza misteriosa.

 

Il sole torreggiava sulla movimentata Los Angeles, quando i quattro demoni si riunirono in una modesta casetta di un piccolo quartiere, a Koreatown. HeiShin stava oscurando la stanza.

«Sicuro sommo Oscuro che qui non ci sono più vampiri?» chiese incautamente Xaphan.

«Se non riesci a percepirne la presenza, mi spieghi come potrai portare avanti quest’impresa, insulso angioletto? ti faccio presente che sei nel corpo di un vampiro, vedi quindi di non commettere errori.. come quello di mettere in dubbio la mia parola! Qui ce n’erano, ma se ne sono andati» tempestò il demone.

«Mio Padrone, perdoni la mia sfacciataggine, ma il Signore qui ha ragione.. non ci sono vampiri ed in ogni caso, può chiedere consiglio a me» intervenne cauto Aaron.

«Sei talmente insignificante che quasi mi dimenticai di te, mio discepolo.. e sia, mi sarai da guida. Manco di energia, per questo mi sento così smarrito» si giustificò Xaphan.

«Avete bisogno di una fanciulla, lo capisco» rifletté il servo sulla sua fame, ricordandosi della sera in cui si sono incontrati.

«Sono piuttosto impaziente anche io di passare all’azione. Se non raccogliamo qualche cuore umano, qui patiremo tutti la fame! Sono d’accordo sul fatto di agire con prudenza, nel raccogliere le anime e diventare concreti, ma se non recuperiamo un po’ di energia, si metterà male per tutti noi» osservò Glasya entrando nella stanza.

«La femmina ha ragione, non serviranno molte vittime, sommo Oscuro. Dobbiamo però procedere, ci dobbiamo nutrire» concordò Loquerion alle sue spalle, sperando di non infuriare il demone, consapevole del suo carattere iracondo.

«Così sia.. voi due andate subito a fare il vostro lavoro, l’influenza del sole vi sarà minima dato che siete demoni.. per cui, sbrigatevi!» ordinò HeiShin a Xaphan e Glsya, che non se lo fecero ripetere due volte ed uscirono da soli dallo stabile.

«Peccato che non ci possiamo portare quei vampirelli, mi sporcherò tutto il vestito» si lamentò la donna.

«Non ci serviranno, io e te siamo abbastanza potenti e ti prometto che non ti sporcherai, bellezza» ghignò fiero Xaphan.

Intanto Loquerion li stava osservando dalla finestra.

«Per quanto siano potenti, dici che c’è da fidarsi di quei due? E siete sicuro che il sole non li danneggerà?» chiese al suo capo, preoccupato che possano risultare una spina nel fianco.

«Credo che di questo ne abbiamo già discusso, ci servono.. ognuno di voi tre ha un ruolo ben preciso nell’aiutarmi a compiere la mia vendetta, quindi preoccupati del tuo. Per quanto riguarda il sole, la nostra energia demoniaca ci protegge» rispose con fermezza il demone.

Loquerion a quelle parole, si chiese se il suo capo avrebbe mantenuto gli accordi e avrebbero regnato tutti insieme o se aveva in serbo per loro progetti meno lieti.

Osservò i vampiri alleati assopirsi, loro non erano troppo abituati all’intensità del sole e le ore diurne li faceva stancare.

Nel frattempo gli altri due demoni, procedettero lungo il Korean International Park, per arrivare quasi al centro, dove quella mattina si svolgeva il mercato tra le vie secondarie del distretto coreano.

L’uomo sentì una fitta allo stomaco per la brama di carne e sangue.

«Che dici allora, qui mi sembra perfetto» affermò lui impaziente.

«Assolutamente sì, guarda quanta gente.. che posto orribile però, gli umani hanno combinato un vero disastro su questo povero pianeta» osservò lamentosa come sempre.

«Come gli attacchiamo? Non ho molto potere a mia disposizione.. sono debole» la voce del demone era rauca di rabbia, detestava essere impotente.

«Lascia fare a me, avviciniamoci e stai a vedere come agisce una vera Regina» fece spallucce la vampira avanzando su suoi tacchi verso il margine del mercato.

In quel momento famiglie, ragazzi, persone anziane e bambini girovagavano felici e indisturbati tra le bancarelle del mercato. Uomini d’affari si spostavano avanti e indietro tra i vari palazzi che costeggiavano il centro, intenti a rispondere ai loro palmari e iphone. Una striscia divisoria separava la strada principale dal mercato.

Glasya la superò e si soffermò ad osservare la folla fremente come un formicaio.

Allungò le braccia davanti a sé ed aprì le mani formulando a voce alcune parole demoniache nella solita lingua antica ed a quel punto, la caratterizzante cortina di fumo nero si levò attorno a lei e si scagliò velocemente lungo la stretta via del mercato che inghiottì qualunque cosa, oggetti o persone che fossero.

La gente in preda al panico ed allo stupore urlava terrorizzata per l’insolito fenomeno. Alcuni si misero a correre e spingersi tra di loro febbrilmente. Le mamme presero per mano o tra le loro braccia i figli e cercarono una via d’uscita senza successo.

La nube di fumo era fitta, creò una specie di tunnel sulla via. Impossibile uscirne e tanto meno entrarvi.

Le bancarelle coi vari oggetti tra cui vestiti, gioielli, giocattoli e molto altro cominciarono a sgretolarsi, a dissolversi per gli effetti nefasti del fumo nero. Nelle bancarelle alimentari il cibo ammuffì, si rinsecchì o si dissolse in polvere.

La gente si dimenava in preda al panico, al terrore della morte imminente.

Gli anziani furono i primi ad accasciarsi a terra, faticando a respirare. Il fumo li stava intossicando e bloccava i loro polmoni sino a farli esplodere. Le fibre dei vestiti si sfasciarono, come tanti piccoli uomini che si tenevano per mano e all’improvviso, si lasciavano andare.

Poco a poco la gente cadeva, alcuni morivano all’istante, altri semplicemente svennero. Soltanto i bambini, fino all’adolescenza, sembravano non risentirne dell’incantesimo.

Intanto Glasya si gustava la scena dall’esterno, gli altri cittadini osservavano increduli e curiosi il tunnel di fumo. C’è chi urlava disperato il nome di qualcuno all’interno, chi chiamava i soccorsi delle forze dell’ordine, chi scappava per allontanarsi il più possibile dal fenomeno. Xapahn si avvicinò alla donna.

«Eccellente, debbo dire che pur essendo al momento debole, i tuoi poteri non sono niente male, bellezza» osservò piuttosto stupito.

«Ti ringrazio, ma era ovvio che io sia potente mio caro Xaphan! O come preferisci farti chiamare.. guardali, come corrono. Come urlano disperati, senti la loro paura.. è sublime» esclamò estasiata Glasya, mentre si avvicinava al principio del suo incantesimo.

«Ma dove vai?» chiese l’uomo seguendola.

«A prendere ciò che ci spetta, no?» rispose senza voltarsi lei ed entrando nel tunnel nero.

Si guardò attorno, ogni cosa fu letteralmente polverizzata, la via era ricoperta di detriti e carni marcite.

I bambini sopra quel che rimaneva dei loro genitori o parenti, piangevano e urlavano. Altri stavano in disparte in gruppo, terrorizzati per l’accaduto.

Glasya con un sorriso soddisfatto si avvicinò a loro. «Filate via, fin che siete in tempo» urlò, mentre obbedienti tutti i bambini si alzavano e scappavano dai due demoni.

Altri ragazzini sebbene esitanti, seguirono la massa, troppo spaventati dalla visione di quelle due macabre figure.

«Bambini.. così puri, così melensi.. bleah! Vomiterei se solo leccassi anche uno di quei cuori» affermò disgustato Xaphan, mentre la donna si impegnò a contare il numero delle vittime.

«Ce ne sono tantissimi, ti rendi conto? forza abbuffiamoci!» esclamò impaziente lei, intenta a strappare il cuore da una donna sdraiata ai suoi piedi.

«Ma che fai, sei impazzita?! Non pensi a quel che direbbero HeiShin e Loquerion?» l’eccessiva reazione del compagno stizzì la donna.

«Mi stai dando ai nervi! Ma che sei, il loro cagnolino? Prendi e mangia, meglio mettersi in forze! Ci sono tanti di quei umani qui che ne basteranno pure per loro!» a quella risposta, Xaphan raccolse qualche carcassa e mettendosi a sedere cominciò a squarciare petti ed a strappare cuori come un nocciolo da una ciliegia.

I due demoni divorarono quei organi a loro tanto succulenti, con un’enfasi unica. Sentirono la carne tra i denti e lungo l’esofago che poco a poco restituiva loro la giusta energia, la carica necessaria a dare potenza alla loro magia. Rimasero per ogni corpo imbambolati, paralizzati ed ubriachi di quel che era il calore ed il dolce pulsare del loro cibo.

Consumarono il pasto con troppa lentezza, il tempo necessario per essere a loro insaputa, scovati da qualcuno che dava loro la caccia già da un po’.

Si trattava di Zell.

Da pochi minuti era giunto ai confini di KoreaTown, allarmato da una forte sensazione e dall’energia demoniaca dei due che riuscì a percepire in tempo. Alla vista del fumo nero in lontananza si rimproverò di non aver portato con sé alcuni alleati, sebbene sperò di trovarne alcuni nella zona.

Prese la rincorsa e si avvicinò al luogo, stando ben attento a coprirsi dai raggi del sole.

Lentamente la nube si stava dissolvendo, mentre agenti di polizia l’accerchiavano ed i curiosi rimasero a guardare. Ambulanze e addetti alla sicurezza si presero cura dei bambini sopravvissuti che a modo loro cercarono di spiegare l’accaduto.

Glasya e Xaphan soddisfatti, chiusero una sacca contenente il resto dei cuori, circa una trentina.

Erano lordi di sangue sia sul viso che sui vestiti.

«Dannazione mi sono sporcata! Non ci avevo fatto caso e» non ebbe il tempo di finire la frase che l’altro la bloccò.

«Zitta! Lo senti? sta arrivando un vampiro.. ora riesco a sentirlo» osservò l’uomo restando in attesa.

«Hai ragione ed è piuttosto forte.. che sia quel Arum?» i due demoni si ricomposero e dopo aver chiuso la sacca, rimasero in attesa.

Da un punto indefinito fece capolino Zell all’interno del tunnel di fumo.

Non ebbe problemi ad oltrepassarlo poiché poteva tenere alla larga solo gli umani, ma dagli effetti negativi nessuno ne era immune, tranne i demoni. Annusandone l’aria satura di negatività, il vampiro rimase quasi stordito, ma non si diede per vinto e avanzò cauto. Fino a trovarsi di fronte ai due nemici. «E voi chi cazzo siete?» esclamò Zell sfoderando la sua katana. 

«Qui le domande le facciamo noi, chi diavolo sei tu?» ribatté Xaphan disgustato.

«Sei forse quel Arum?» intervenne Glasya, squadrandolo da cima a fondo.

«No, io sono il suo fedele braccio destro. Come conoscete il mio Signore?» i due demoni si scambiarono un’occhiata d’intesa.

«Bene bene.. avremo molte cose da riferirgli, sai?! io comunque sono Blake e lei è Arleen» si presentò lui, utilizzando volutamente i falsi nomi.

«Non mi convincete, avete l’aspetto di due vampiri, ma avete gli occhi gialli e avete combinato questo disastro.. dunque, chi siete veramente?» riprese Zell puntando contro la katana.

«Ebbene.. i nostri veri nomi sono Glasya e Xaphan. Siamo giunti su questo squallido mondo assieme ad un nostro potente compagno, che credo tu conosca bene.. HeiShin» sentendo quel nome pronunciato dalla donna, Zell spalancò gli occhi incredulo.

«Ma allora è vero che è tornato! E perché ha portato voi due con sé?» chiese senza esitazione.

«Per vendicarsi del tuo capo, questo è ovvio! Noi siamo molto più potenti e abili dei suoi quattro spiritelli che avete abilmente ucciso. Questa volta le streghe non la faranno franca» ghignò soddisfatta Glasya, impaziente di incontrarle e di cibarsi anche dei loro cuori.

Zell si mise rapidamente a riflettere facendo un quadro della situazione. Dunque il demone era tornato davvero, Kate e la sua premonizione non avevano torto e ciò significava dover avvertire al più presto Arum.

«Ad ogni modo, mi auguro che ce lo presenterai, abbiamo voglia di farci una bella lotta con lui» intervenne Xaphan con tono di sfida.

«Vi farà a pezzi, questo è certo! Se avete combinato questo macello, significa che siete ancora deboli» osservò Zell senza farsi distrare.

«Be’ noi due non molto a dire il vero, ci siamo fatti un bel banchetto e porteremo il restante al nostro sommo Oscuro. Dopo di che, ci procureremo qualche anima e quando saremo diventati concreti, domineremo su questo lurido postaccio e su tutti voi!» tempestò altezzosa Glasya.

«Certo, vi illudete che Arum e le quattro prescelte ve lo lascino fare! voi demoni siete sempre così pieni di voi stessi e accecati dal vostro ego, che dimenticate di non essere invincibili» stuzzicò Zell preparandosi all’attacco.

«Questo putrido insolente mi ha stancato!» protestò Xaphan.

Alzò il braccio, contemporaneamente il vampiro alzò la katana, ma non ebbe il tempo di fare una mossa che un’ondata lo scaraventò sul fondo della via, facendolo quasi uscire dal tunnel di fumo.

Il colpo fu violentissimo, si sentì a pezzi, probabilmente aveva qualcosa di rotto.

Non che fosse grave, ma avere parti del corpo rovinate non era di certo gradito ai vampiri.

Si alzò in piedi a fatica, stringendo la sua arma. Tossì sangue e polvere. La negatività del fumo lo stava intossicando, sebbene poco a poco pareva diradarsi. Alzò lo sguardo ed a sorpresa si ritrovò parata davanti Glasya che lo afferrò per il collo e lo sollevò da terra, dimostrando una forza inaudita.

«Potrei ucciderti all’istante pivello, ma esigo che tu ora vada dal tuo misero capo e gli riferisca tutto ciò che ti abbiamo detto, intesi?» gli ordinò fissandolo negli occhi, l’odio gli bruciava nelle orbite.

«Bastardi.. non vincerete» gemette Zell, ma quelle parole furono motivo di ira per il demone, che lo scaraventò a terra e si sentì frantumare il corpo come vetro.

«Qui abbiamo finito Glasya, torniamo dagli altri» propose l’altro, uscendo dalla cortina di fumo.

«Vi stermineremo tutti, dal primo all’ultimo» concluse la donna, sferrando un calcio al vampiro rimasto a terra.

Soppesò dentro di sé le parole del demone, usando il plurale in “altri”, significava che non erano solo in tre.

Si alzò a fatica in piedi ed uscì dal tunnel di fumo, accerchiato dalla polizia che lo fermarono, ma non vi era altro tempo da perdere, doveva assolutamente correre da Arum per avvisarlo e così con un balzo saltò oltre i poliziotti e si mise a correre più veloce che poté.

Alla prima occasione rubò una macchina mettendosi al volante e sfrecciò verso la meta.

Non gli ci volle molto ad arrivare alla villa, aveva conservato sufficiente energia per sfruttare la sua incredibile velocità, ma informandosi da qualche alleato, il padrone era uscito per delle commissioni.

Decise quindi di ristabilirsi, cercando di parlare con Kimberly. Difatti entrò nel suo studio e la trovò a frugare tra i cassetti della scrivania.

«Milady! Ma che cosa state facendo qui?» chiese in un sospiro, più che in un ammonimento.

«Zell!! Io stavo.. facendo ordine! Ma com’è che sei ridotto in quel modo? Che ti è successo?» la vampira fece riferimento al suo aspetto malconcio ed i vestiti stropicciati.

«Vi devo parlare di una cosa molto importante in attesa del ritorno di Arum.. sediamoci» il tono inespressivo del vampiro fece sussultare Kimberly che pensò immediatamente alla faccenda di HeiShin.

I suoi sospetti furono quindi fondati nel momento in cui Zell le rivelò dello scontro e del dialogo avvenuti a Koreatown.

«Incredibile.. io non so che cosa dire.. la faccenda è seria, dobbiamo anche avvisare le altre e radunarci per studiare un piano!» affermò Kimberly con eccessiva fermezza, cosa che risultò alquanto insolita al vampiro.

«Siete davvero cambiata Milady, non avreste reagito in questo modo qualche tempo fa» osservò Zell.

«Ho imparato molte cose stando al fianco di Arum» cercò di giustificarsi lei, rendendosi conto di non aver sfoderato un’espressione di convincente stupore alla sua notizia.

«Ad ogni modo, avvisate pure le altre streghe in attesa del suo ritorno.. io vado a ricompormi, se permettete» continuò il vampiro cercandosi di rimettersi in piedi.

«Te lo permetto, anzi aspetta che ti aiuto» Kimberly lo afferrò per un braccio e il più delicatamente possibile lo sollevò.

«No grazie, non pensate a me.. è più importante pensare a quel che c’è da fare.. io me la caverò» a stento si tenne in equilibrio, la fatica lo aveva abbattuto e la tossicità del fumo demoniaco lo aveva reso un po’ più debole. Le sue capacità di rigenerazione quindi, erano pressoché rallentate.

La giovane corse nella sua stanza e scoppiò in lacrime in preda al panico, al terrore, alla rabbia ed all’odio verso Zetesis che aveva dato inizio a tutto quello.

Certamente non avrebbe potuto conoscere Arum, ma almeno non avrebbe rovinato la sua vita né quella dei suoi compagni o del mondo intero, evitando inutilmente di mietere tante vittime.

Ancora tremante e angosciata, prese in mano il telefono cellulare e spedì a tutte un messaggio d’invito urgente alla villa per parlare degli sviluppi sulla faccenda che riguardava la premonizione di Kate, fondatissima.

 

Poco più tardi, si riunirono le quattro streghe assieme a Luxor, Spike e Zell nel più grande salone della villa. Kimberly prese la parola, raccontando assieme a Zell la storia di Glasya e Xaphan e della tragedia che avevano causato.

L’orrore rapì le interlocutrici.

«Tutte quelle persone.. sterminate in una volta sola! e da fumo per giunta» osservò incredula Kate.

«Sicuramente ne parleranno su tutti i notiziari, alla faccia della discrezione! Maledetti infami!» sbottò imprecando Kira.

«Fortuna che perlomeno hanno risparmiato i bambini, giusto Zell?» chiese Karen rivolgendosi al vampiro che aveva recuperato le forze e la forma fisica. «Esattamente, li avevo notati al di fuori della nube poco prima di entrarci. Evidentemente i cuori dei bambini sono inadatti per loro, si nutrono solo di umani adulti» spiegò mentre in quel preciso istante arrivò Arum.

«Salve a tutti.. che cosa sta succedendo?» chiese ignaro, abbracciando Kimberly che gli si fiondò addosso in cerca di protezione.

«Meno male che sei arrivato! è successa una cosa orribile oggi» lo informò lei, prima di riferirgli tutto ciò di cui avevano finora discusso.

Il vampiro leader si sentì tra l’adirato e il fortemente preoccupato.

«Questo significa che.. dovrai rimetterti in gioco Kimberly e lo sai che non voglio!» Arum diede un colpo al tavolo in preda all’ira.

«Mio Signore calmatevi, dobbiamo pensare una cosa per volta» intervenne Zell.

«Certo, oggi c’è stata una tragedia in città, ma se permetti è normale che mi preoccupi per la mia compagna!» rispose furibondo Arum, una reazione del tutto estranea a Zell.

«Signore è meglio che vi sediate e che ricominciamo da capo» gli consigliò il vampiro scambiandosi uno sguardo con Kimberly.

«Amore non prendertela così, ricordi? Ci sei tu a proteggermi.. ci sono tutti loro. Ora dobbiamo pensare esclusivamente alla missione. Al da farsi, per proteggersi da quei mostri e per proteggere la razza dei vampiri.. e non solo» cercò di rassicurarlo lei, vedendolo addirittura tremare per l’eccesso d’ira.

Gli sbalzi emotivi del vampiro preoccuparono sempre più Zell e gli altri alleati. «Scusatemi tutti.. ricapitoliamo.. in quanti sono?» riprese più cautamente Arum, rivolgendosi al suo diletto.

«Più di tre, sicuramente. Non hanno fatto nessun cenno a Zetesis, ma i corpi posseduti non appartenevano ad umani, sono stati astuti» osservò Zell.

«Allora.. Arleen e Blake.. lui lo conosco, si tratta di un capo clan» affermò Arum stupito che il suo alleato non lo avesse riconosciuto.

«Di Chicago! Ora ricordo! Ma certo!» rammentò finalmente Zell.

«Dunque hanno raccolto cuori per le loro energie, ma avranno bisogno di anime e questa volta mi chiedo proprio  come pensino di fare» rifletté Arum.

«Li dobbiamo cercare e stanare! È semplice!» intervenne Kira, interrompendoli.

«Non possiamo permetterci di stare qui a ciondolare, che cosa stiamo aspettando? Sono demoni, siamo tutti in pericolo! La mia Lucy è in pericolo!» urlò la donna.

«Calmati pure tu Kira, ma che vi prende stasera? Non succederà nulla a nessuno» esclamò Kate cercando di rassicurare l’amica.

«Il problema più che altro è se stavolta, potrete usare il Sigillo per riaprire un portale» dichiarò infine Arum.

«Mio Signore, una soluzione a dire il vero ci sarebbe»  rispose esitante Zell.

«E quale mio diletto?»

Questi si schiarì la gola. «Evocare Ecate» ci fu una pausa.

«Stai forse dicendo.. proprio lei? quella della leggenda?» chiese stupita Kimberly.

«Ma è un demone! Tu sei pazzo!» affermò Kate.

«No, Zell ha proprio ragione.. è vero che è un demone, ma è la regina di voi streghe e non avete pertanto motivo di temerla» cercò di tranquillizzarle Arum.

«Ma io ho paura.. siete sicuri sia una buona idea?» dichiarò Karen stringendosi alla sedia.

«Non ti preoccupare, non farebbe mai del male ad una strega senza un valido motivo. E sia, bisogna evocarla e parlarci, lei ha di sicuro la soluzione per contrastare HeiShin e la sua combriccola. Ragazze, la decisione spetta solo a voi poiché solo voi siete in grado di evocarla. Che ne dite?» le quattro ragazze a quella domanda si guardarono l’una con l’altra.

«Credo di parlare a nome di tutte nel dire che è la soluzione migliore. HeiShin da solo è un demone temibile, figuriamoci poi se ce ne sono altri in giro! Questa volta è tutto diverso perché non sappiamo come intervenire dal momento che non sappiamo qual è il portale di origine che hanno combinato al di fuori di Los Angeles. La cosa migliore quindi è evocare qualcuno tanto potente quanto il nostro nemico e di farci guidare in una strategia vincente» propose Kira guardando le altre.

Karen e Kimberly sembravano esitanti, ancora scosse e turbate da tanti pensieri e ricordi. Kate annuì in consenso dell’idea di Kira. Arum baciò teneramente la sua amata sulla fronte.

«Se proprio dovrai combattere, Ecate è l’unica che può garantirti la massima protezione. Sarei più tranquillo se ci fossero i suoi poteri di mezzo» le spiegò in tono supplichevole.

«Come vuoi tu amore mio, va bene! evochiamola! Sei d’accordo anche tu Karen? Non abbiamo molte altre alternative» la ragazza annuì alla domanda, ma con poca convinzione. Stavano procedendo nel modo giusto?

 

Giunta la mezzanotte, l’ora idonea a richiamare una forza tanto potente, accesero le candele che avevano sistemato a cerchio nel centro della stanza. Kate disegnò una stella a sei punte nel centro del cerchio, con all’interno il simbolo delle tre fasi lunari, che rappresentavano il simbolo di Ecate.

Dopo di che, si prepararono ai quattro angoli cardinali per dare inizio al rito.

«Siete tutte pronte ragazze?» prese a chiedere Arum, preoccupato soprattutto per Kimberly.

Ad una risposta affermativa delle streghe, queste presero ad evocare il demone. «Forza del fuoco purificatore, dammi il potere, dammi la sapienza» cominciò Kira.

«Forza del vento e dell’aria, dammi il potere, dammi la conoscenza» continuò Karen.

«Forza della terra e della natura, dammi il potere, dammi la visione della Madre» fu il turno di Kate.

«Forze dell’acqua che da la vita, dammi il potere, dammi l’intuizione» terminò Kimberly, per poi esclamare tutte in coro il nome del demone.

«Ecate, Sovrana di tutte le lamie, protettrice della magia nera, con questo incantesimo noi ti supplichiamo! Noi ti veneriamo! Noi ti invochiamo! Mostrati a noi» urlarono riempiendosi di energia che trasmisero al cerchio magico.

Con una folata di vento le candele si spensero e la stella nel cerchio prese ad illuminarsi liberando poi una cortina di fumo violaceo che riempì il salone.

I quattro vampiri percepirono la forza demoniaca in arrivo facendoli trasalire, mentre le streghe sospirarono per la spesa di energia e indietreggiarono di un passo, incerte sul fenomeno scaturito.

Il fumo formò una colonna al centro del cerchio e poi improvvisamente si dissolse, dando forma ad una figura femminile.

«Chi osa invocarmi con un rito tanto banale? Chi è quello stolto che ha nominato il mio nome, il nome della Regina della notte, della magia nera e protettrice di tutte le streghe» tempestò la donna.

Aveva l’aspetto di una signora molto anziana, il viso tumefatto da segni, da rughe profonde. Un naso portentoso troneggiava sotto a piccoli occhietti vitrei di un nero spaventoso. I capelli grigi e stopposi erano legati sopra la testa da un diadema rifinito, con incastonate delle ametiste. Lasciava cadere dietro di sé la folta chioma, lasciando però liberi i due volti ai lati della testa. Uno raffigurava una donna piuttosto giovane, l’altro quello di una bambina. Indossava una lunga tunica viola col marchio della luna, e lasciava scoperte le mani dalla pelle raggrinzita e purulenta e dagli artigli lunghi ed affilati. Mentre parlava scopriva delle piccole zanne gialle marcite. Sebbene non fosse reale, ma solo una presenza astratta, una proiezione, fu comunque piuttosto inquietante per tutti i presenti.

«Siamo state noi.. le prescelte» dichiarò prendendo coraggio Kate.

«Ah giusto voi! Mi devo congratulare per il lavoro che avete svolto.. anche se poi dovrò fare due chiacchiere con gli innamorati» disse minacciosa rivolgendo infine, lo sguardo a Kimberly.

«Nostra Signora, lo conoscete il motivo per il quale siete stata convocata?» intervenne prontamente Arum.

«Taci, vampiro! per voi sono La Grande Madre, prego. Lo conosco il motivo, si tratta ancora di quel HeiShin» ammise arcigna.

«Esatto, abbiamo bisogno del vostro aiuto» riprese esitante Kira.

«Siete un po’ presuntuose, ma visto che siete le mie preferite ormai, essendo le prescelte e avete domato il cuore barbaro del Sigillo di Kronos, non vi punirò» rispose puntando il dito contro le ragazze.

«Dunque, il demone è riapparso in questo mondo con l’aiuto di altri tre malefici, chi siano esattamente questo non lo so. Ma senza i suoi Spiriti a portargli anime, non le può raccogliere. Hanno divorato cuori per darsi forza e potere, ma non saranno mai concreti senza anime. Per farlo, credo proprio che avranno bisogno di un vaso di Pandora. Non l’originale s’intende, ma uno molto simile che oltre a liberare una forza malefica se imprigionata, può anche rapire le anime degli umani. Faranno uso di quella per facilitarsi il compito» spiegò infine la donna, sorprendendo tutti. Com’era possibile che fosse a conoscenza di quei fatti? E perché non interveniva in alcun modo? Domande lecite, che si posero tutti i presenti, ma che non avrebbero avuto il coraggio di porle direttamente.

Intervenne a quel punto Kira. «E come? Dove si trova questo oggetto?»

Lo sguardo di Ecate fu agghiacciante. «Non osate interrompermi! Questo vaso di Pandora si trova in un tempio druidico in Irlanda. Vi darò la sua posizione esatta. Ovviamente però, oltre ad impedirglielo, dovrete sconfiggerlo una volta per tutte. Lui ed i suoi aiutanti. Non vi sarà facile, ma avrete il mio supporto ed inoltre, avrete bisogno di un’altra strega, un aiuto maggiore» tutti rimasero in silenzio, stupiti e quasi entusiasti del fatto che ci sarebbe stata un’altra strega nella loro compagnia.

«Ella è una discendente dei druidi custodi di quel tempio, l’ho già prescelta. Dovrete solo consegnarle l’amuleto del Sigillo per donarle i poteri. Stavolta infatti non basteranno i quattro elementi, ci vorrà anche il quinto elemento che sarebbe l’essenza di tutti gli altri, rappresentato come il fulmine. L’apice delle energie.»

A quelle parole, Arum prese a riflettere. «La cosa non mi è nuova, il fulmine è il fenomeno energetico scaturito da tutti i quattro elementi, un’energia eccelsa, in molte credenze pagane» affermò dando sfogo alla sua conoscenza in merito.

«Esattamente, ella potrà aiutarvi a distruggere i demoni, con la forza di tutti e cinque i vostri poteri» continuò il demone.

«Ma il Vostro supporto in cosa consiste?» intervenne Kira pensierosa.

«Potenzierò le vostre armi, affinché possano essere mortali per l’essenza demoniaca e non per l’ospite. Non hanno scelto degli umani a quanto mi sembra di capire, ma dei capo clan vampiri. Complica un po’ le cose, ma auspico che ce la farete» sentenziò infine Ecate. «Sono certa che ora avrete tantissime domande e vi sentirete tutti confusi. Ma prima di procedere oltre a tal riguardo, ho un assoluto bisogno di parlare a quei due. Avvicinatevi, prego» indicò Arum e Kimberly con tono intimidatorio.

«La mia decisione è irrevocabile per quanto riguarda voi due. Tu vampiro, hai infranto una regola importante. Hai trasformato la ragazza dopo che era già morta. Passi se fosse stata un’umana qualsiasi, ma qui si tratta di una mia discepola. Una strega e per giunta, una delle prescelte. Un tale affronto non mi può essere indifferente» sentenziò minacciosa, mentre i due sussultarono temendo la decisione del demone di cui fece cenno.

«Grande Madre, amo troppo questa ragazza, non avrei potuto permettere di perderla.. per lei farei qualsiasi cosa, punitemi pure!» esclamò Arum preoccupato per la sorte di Kimberly.

«Nessuna punizione vampiro, ma dovrete fare una scelta. Soprattutto te mia donzella, dovrai scegliere. Non sei insostituibile, per cui o rimani legata al vampiro, ma rinunci ai tuoi poteri di strega. Oppure consacrerete il vostro amore con un matrimonio. In questo caso però, ti voglio come mia ancella. Sarai un’empusa. Questa è la mia decisione, questa è la sorte per chi osa disobbedire o infrangere le regole. Avrete otto ore per decidere, poi mi rievocherete e mi darete la vostra sentenza» concluse il demone senza possibilità di obiezioni.

I due amanti rimasero in silenzio, un turbine di pensieri ed emozioni gli avvolse. Le due scelte erano piuttosto severe e difficili da prendere. Quale poteva essere la decisione migliore?

Appena Arum stava per proferire parola in merito, la figura di Ecate si dissolse.

«Se ne è andata così» esclamò sorpresa Kira.

Rimasero tutti in silenzio, Kimberly con lo sguardo a terra.

Ad Arum martellava uno spaventoso pensiero, significava forse perdere la sua amata in entrambi i casi?

Dovevano però scegliere. E in fretta.

 

 


Quarta parte: Gli eredi

CAPITOLO 37


Al tatto percepì le lenzuola gelide. Fece scivolare la mano fino ad accarezzarle la schiena.

La sentiva nuovamente lamentarsi nel sonno.

Le si avvicinò con cautela e le baciò la fronte. Non si mosse, semplicemente tremava.

Le accarezzò allora il ventre, dove il loro bimbo si nascondeva al sicuro già da otto mesi.

Percepì l'aria gelida, l'umidità nell'aria si stava solidificando.

Sui mobili e sul pavimento pareva avesse nevicato a mo' di spolverata. Se fosse stato vivo si sarebbe assiderato. Infatti il ghiaccio smaltò ogni cosa.

«Kimberly svegliati! Svegliati!» ma come risposta non ricevette altro che un gemito.

Si sentì il corpo pesante, probabilmente il sangue nel suo corpo si stava congelando.

«Amore ti prego, apri gli occhi» cercò di smuoverla con delicatezza, per poi baciarla sulle labbra.

Con un balzo finalmente si svegliò. «Arum! che è successo…» ansimava spaventata, guardandosi attorno.

«Hai di nuovo congelato tutto... anzi avete» ridacchiò lui.

«Stavamo per diventare dei ghiaccioli» scherzò lei, senza nascondere però la sua preoccupazione.

«Altro incubo?» le chiese accarezzandole i capelli, madidi di brina.

«No non proprio, non erano immagini ma… non lo so, bagliori. Come se qualcosa mi gettasse negli occhi una forte luce, come un faro. A intermittenza… e non te lo so spiegare, mi da sempre la solita sensazione di apatia e poi di spavento… è indescrivibile!» sentì un cerchio alla testa deducendo dalla spossatezza che avevano dormito fino a tardo pomeriggio.

«Uhm... non so proprio che dirti! ma non ci darei troppo peso» Arum la baciò teneramente e poi si alzò dal letto, facendo scricchiolare la lastra di ghiaccio sul pavimento.

«Tu rivestiti, io vado a chiamare Kira che sciolga questo improvvisato inverno casalingo» scherzò nuovamente il vampiro.

Si sentiva sereno da quando la moglie rimase incinta. L'idea di avere un erede infatti lo elettrizzava, lo eccitava il pensiero che una parte di lui sarebbe vagata nel mondo e avrebbe portato avanti i suoi sogni, i suoi ideali e valori. Certo, un pochino egoistico desiderare che il proprio pargolo segua le proprie orme, ma desiderava solo il meglio per suo figlio e credeva fermamente che il meglio sarebbe stato il futuro che sognava. Un futuro dove regnava la pace, la libertà, la fratellanza e chissà, forse ci sarebbe riuscito.

Il suo ruolo di anziano vampiro gli conferiva enormi poteri in carica politica tra quelli della sua razza. Molte rivalità tra clan furono cessate, e le ingiustizie diminuite.

Difatti gli USA non risentirono molto degli effetti negativi degli eventi di qualche anno prima, proprio perché Arum si impegnava a mantenere ordine e stabilità tra la razza dei vampiri. Vektor ed Edgar, gli altri due anziani, non erano incapaci, ma troppo pragmatici e poco disponibili ai problemi dei novizi.

Arum invece, come sempre si mostrava molto solidale e sensibile, oltre che un ottimo leader. Così aiutava il più possibile tutti quelli che poteva, anche se ciò voleva dire sacrificare un po’ del suo tempo con l’amata moglie Kimberly e con gli amici.

Quei quattro anni infatti, scivolarono velocemente tra impegni e amore.

Quell’amore che diede otto mesi prima, il suo frutto.

La complicazione fu che la gravidanza portava non pochi guai. Gli effetti collaterali principali furono gli incubi e la mancanza di stabilità dei poteri da strega di Kim.

Gli incubi cominciarono all’improvviso, dopo il terzo mese di gravidanza. Faceva caldo, dato che era in luglio, esattamente il 12, un giorno che Kimberly decise di segnare. In principio furono una sorta di flash back di guerre del passato.

Vedeva soldati vampiro combattere tra loro o perlomeno, questo è ciò che le sembrava di vedere. Inoltre, sognava se stessa che veniva sfregiata da pipistrelli e corvi.

Immagini inquietanti, dolorose proprio come se le viveva lei stessa nella realtà.

Da sveglia  aveva un umore piuttosto altalenante, non si sentiva stabile. Sfociava in rabbia, poi in dolore, poi in risate fragorose. Negli ultimi mesi le immagini macabre diedero spazio a sogni incerti, sempre più ambigui. Luci e spasmi di energia che le riempivano la testa, tormentandole il sonno. Possibile che non fossero solo gli ormoni?

Infondo Kimberly era avvezza agli incubi, infatti prima di scoprire di essere una strega dell’acqua, se lo sognava quell’elemento. Pareva quasi che avvenimenti di un certo spessore le arrivavano attraverso i sogni, incubi. Una sorta di avvertimento o forte sensazione plasmata in figure immaginarie macabre.

Quindi si rese ben presto conto che volevano dire qualcosa quelle immagini, ma preferì tenere la cosa per sé. Nel dettaglio non ne fece parola né col marito, né con gli alleati e né con  le amiche. Non perché non si fidasse, ma perché sentiva che era meglio tenere la cosa per se stessa e per nessun altro. Da un canto la feriva non dover dire qualcosa alle amiche e soprattutto all’amato Arum, in particolar modo a lui, non era una cosa di cui vantarsi. Non ne era affatto fiera, ma se dentro di sé qualcosa diceva di non svelarlo, allora le sembrava saggio darle ascolto. Infondo non era più una comune strega, ma un’empusa e questo comportava delle notevoli differenze.

Oltre agli incubi però, Kimberly doveva fare i conti con la sua mancanza di controllo con i poteri. Questo anziché incidere sul suo umore, incideva sul suo fisico poiché la debilitava facendola affaticare più del dovuto. Sembrava una sorta di conseguenza al suo umore, dal momento che magia ed emozioni sono strettamente correlati, ma non ci si poteva basare unicamente sulla mente di Kimberly, ma anche del suo bambino.

Infatti si trattava di due menti in un solo corpo, chiaro dunque che la sua parte di strega ne risentiva. Non poteva essere una gravidanza normale come per le persone comuni e mortali, si doveva aspettare qualcosa di più intenso. Nel suo grembo si stava formando un bambino speciale e potentissimo, rispetto a uno umano.

Oltre a congelare l’acqua, compresa l’umidità dell’aria, ogni qual volta che si agitava troppo, scatenava i suoi poteri nelle maniere più disparate. Un giorno ad esempio, starnutendo le uscirono bollicine dal naso e dalla bocca. Altre volte invece riusciva a far fluttuare nell’aria i liquidi, senza nemmeno accorgersene poiché era il bambino stesso a farlo. Quando stavano tutti quanti a tavola, a mangiare e bere, poteva infatti capitare che l’acqua, vino, zuppa dai piatti, o qualsiasi altra cosa liquida si trovasse in quel momento sul tavolo, cominciasse a fluttuare nell’aria, per poi cadere addosso a qualcuno, il più delle volte.

Se le emozioni quali rabbia e tristezza si scatenavano all’improvviso e con vigore, il cielo brontolava, rovesciando poi tempeste o grandinate. Durante una litigata con Arum, la vampira si sentì talmente furiosa e allo stesso tempo avvilita per il solo fatto di essersi scontrati, che fece addirittura nevicare a fine agosto.

E infine, le gelate nel sonno.

Proprio come quel pomeriggio. Kimberly si rivestì con un lungo abito azzurro e si compose in capelli in una morbida treccia come era solita fare da umana.

In quel momento entrò Kira.

«Buona sera cara, il tuo maritino mi ha mandato a risolvere un disastro» esordì la donna.

«Sì tesoro, ti ringrazio della disponibilità. Mi dispiace per questo caos» la vampira si sentì nuovamente avvilita.

«Dai stai tranquilla, però esci non vorrei provocarti danno» si raccomandò l’amica.

«Dov’è andato Arum?» aveva un lieve senso di vertigini e non se la sentiva di stare troppo lontana dal marito.

«Nel suo studio al pc. Ma ha mandato Luxor a prendersi cura di te.. sai com’è.. in questi ultimi giorni è rimasto indietro col lavoro» la informò Kira.

Infatti in varie occasioni il vampiro disertò i suoi comuni impegni, per seguire in prima persona le esigenze della moglie.

«Tutta colpa mia accidenti! » si abbatté Kim, mentre l’altra allungò le mani e inspirava a fondo per accumulare concentrazione e calore.

In quel lungo periodo, le streghe si allenarono parecchio, salendo di livello spirituale e rafforzando i loro poteri. Kira poteva controllare le temperature e come in questo caso, far scogliere le molecole di ghiaccio, facendolo evaporare. In realtà ne era capace da sempre, ma impiegava molta più energia per riuscirci.

Anche Kimberly aveva il potere di controllare le temperature, ma nella sua condizione non si poteva azzardare ad usare direttamente i suoi poteri, rischiando che il bambino prendesse le redini.

Quando Kira terminò e tutto il ghiaccio fu vaporizzato, andò ad aprire la finestra, accertandosi che l’amica fosse uscita dalla stanza. Il sole del pomeriggio che filtrò dalle finestre era piuttosto intenso.

«Ancora incubi? Per aver combinato questo macello» chiese preoccupata Kira.

«Sì, ma sempre più strani» rispose Kim facendo capolino dalla soglia della porta.

«Non ci hai detto molto al riguardo, sei sicura che sia tutto a posto?» sentiva che infondo Kimberly non diceva tutto, raccontò solo di avere incubi e sporadicamente li descriveva, ommettendo le sue sensazioni sul fatto che volevano dire qualcosa di specifico su un avvenimento importante. Passato o futuro che fosse.

«Ma certo, non devi preoccuparti» rispose con un sorriso Kimberly, felice di sapere che le amiche si davano pena per lei.

«Figurati, tanto i sogni sono tuoi» ribatté con il suo solito sarcasmo l’amica.

«Ma secondo me faresti bene a parlarne con Kate, dato che ha il potere delle premonizioni, secondo me ne sa molto di queste cose. Io capisco che per te è un po’ difficile e stai vivendo una situazione particolare, ma parlare ti fa sempre bene! e non solo col il tuo Arum» sentenziò Kira.

Eppure la vampira si sfogava eccome sui vari problemi che riscontrava nel quotidiano. Ma nonostante questo, capirono che qualcosa non tornava.

«Siete troppo sospettose magari, io sono un libro aperto e lo sapete» cercò di svincolare al vampira.

«Ah nessuno lo mette in dubbio, dico solo questo per il tuo bene... sarò aspra, ma ci tengo a tutte voi» ammiccò Kira facendole l’occhiolino per dare enfasi a ciò che aveva espresso.

«Grazie Kira... di cuore» le trasmise una lieta sensazione col suo interesse.

«Basta smancerie! Io vado che Lucy sta ancora studiando quelle equazioni complicate che a me fanno morire!» mentre vedeva l’amica allontanarsi, Kim rifletté sul fatto che con Kate ne avrebbe potuto parlare, ma solo sulla descrizione degli incubi.

Giusto per capire da dove potrebbero provenire e in base a quello, ragionarci sopra. Ma ad annebbiarle la mente fu un’improvvisa e logorante fame. Decise quindi di rimandare le preoccupazioni legate agli ultimi avvenimenti e di precipitarsi in cucina a bere qualche vasetto di sangue fresco.

Per scendere le scale passò davanti lo studio di Arum, preso a consultare le mail e la pagina facebook dei suoi alleati a Los Angeles e New York. Dopo la caduta di Zagor infatti, il capo clan ed anziano di NY, i suoi pochi membri rimasti decisero di accogliere nella sua sontuosa villa tutti quelli che non appartenevano a gruppi oppure a quelli che avevano bisogno di allenarsi. Una sorte di centro accoglienza per vampiri, in onore di Zagor stesso.

Prima di scendere le scale, Kimberly sentì il vociferare di Lucy e Kira su punti e numeri. Le piaceva avere tanto chiasso ed armonia nella sua villa.

Ormai abitavano tutti assieme, gli appartamenti di Kate e Kira li vendettero e diventarono così una grande famiglia. Decisero che fosse opportuno che tutte e cinque le streghe rimanessero unite.

Ad aggregarsi ci furono anche Kelsey con il suo amato Duncan.

Ognuna delle streghe aveva una stanza tutta per sé, arredata a mo’ di mini appartamento. Kelsey e Duncan se la condividevano in quanto fidanzati. Ebbero modo infatti di parlare a lungo e conoscersi affondo, scoprendo qualcosa di molto speciale l’uno nell’altra e tante cose in comune da vivere e sviluppare insieme. Poco a poco l’amore crebbe dentro i loro cuori, finché ufficializzarono quel sentimento legandosi in un dolcissimo fidanzamento.

La stessa cosa successe a Kate e Zell. Infatti non avevano più motivo di nascondersi e avevano ufficializzato la loro unione dando il via alla costruzione della loro romantica e sofferta storia d’amore. Fare tutto alla luce del sole, anzi della luna, aveva cambiato totalmente le loro vite e il loro confrontarsi.

Karen era rimasta l’unica senza amore, ma non se la sentì di conoscere qualcuno. Si diede al massimo negli studi, poiché assieme a Lucy, doveva terminare l’università in quanto avevano perduto parecchio tempo a causa della loro missione precedente che vide la strega coinvolta nel combattimento con HeiShin assieme alle altre.

Avevano dunque tutti ripreso le loro vite tra studio e lavoro.

Kira gestiva ancora il suo negozio di esoterismo in città, mentre Kate gestiva il suo locale per vampiri. Gli affari andavano alla grande e potevano permettersi qualsiasi cosa, senza dover aggravare il peso del mantenimento sul loro ospite Arum, considerato fin troppo gentile a permettere loro di condividere la sua abitazione.

In realtà il vampiro fu molto felice di averli tutti con sé.

Kelsey si era laureata in psicologia e aprì uno studio dove poteva tranquillamente esercitare il suo mestiere di psicologa che era anche la sua passione.

Anche Duncan si laureò lo stesso anno, ma decise di lavorare in altri settori. Si diede a lavoretti occasionali di qualsiasi genere tra l’idraulica, la meccanica e quant'altro. Voleva sperimentare.

Dopo tanta sofferenza e tribolazione con le loro famiglie, anche loro due avevano acquisito un loro equilibrio e serenità assieme agli amici e completandosi a vicenda.

Kimberly sorrise, in quei anni avevano conquistato una certa tranquillità e ne andò fiera. Dopo il pasto, si recò nella futura stanza del suo bambino, quasi completamente ultimata.

Luxor e altri due alleati di nome Axel e Ray, stavano sistemando i mobiletti.

«Va bene così Milady, lontano dalle finestre? » prese a chiedere Ray, spostando la culla.

«Certo, grazie mille» acconsentì la vampira.

Si guardò attorno, soddisfatta della sua idea. Aveva infatti decorato la stanza di bianco e platino, colori pressoché neutri, dal momento che non conoscevano il sesso del bambino.

La carta da parati aveva disegnato un motivo molto fine ed elegante, quasi tribale con piccoli fiorellini che ricordavano orchidee. Al soffitto un lampadario di platino con candele bianche e rosse. Dello stesso colore c’era un armadietto, la culla, il fasciatoio per cambiare pannolini con il necessario e un altro tavolino basso in cui vi erano appoggiati alcuni peluche di pipistrelli e orsacchiotti.

Kim ne prese in mano uno. «Pipistrelli... davvero simpatici! Scontati, ma simpatici. Ma di chi erano questi?» sorrise divertita, le piacevano davvero molto e si immaginava il suo pargolo giocare divertito stringendo quei peluche tra le manine.

Non vedeva l'ora che arrivasse quel momento.

«Di Iris, la sarta. Il Signor Arum li teneva assieme alle altre cose nella sua stanza speciale» rispose Luxor, riferendosi alla stanza in cui Arum riponeva le sue cose più importanti, proprio dove custodiva all’inizio il Sigillo di Kronos.

«Ah ho capito... grazie Luxor» Kimberly ripose il peluche e decise di andare a far visita a quel luogo ancora semi inesplorato.

D’altronde il colloquio con Kate doveva aspettare, poiché era al lavoro. E non trovò di meglio da fare per combattere la noia.

Arrivata sul posto, fece girare la grossa chiave ed entrò in punta di piedi. Nell’aria c’era un odore stantio, poiché Arum non faceva mai aprire le finestre, temendo che qualcosa potesse rovinarsi col vento o l’umidità oppure che entrasse qualche gaza ladra e si portasse via con sé qualcosa di prezioso. Insomma, piccole paure riguardanti qualcosa di veramente particolare e importante per il vampiro. Kimberly non ci aveva quasi mai messo piede lì dentro, ritenendo che fosse solo un vecchio magazzino.

Qualche anno prima vi custodivano all’interno di un cofanetto l’amuleto col quale contrastarono il demone HeiShin. Arum si sentiva molto protettivo nei confronti di quella stanza, forse anche più di quando nei sotterranei ci teneva rinchiuso il cane Corbey.

La vampira si guardò attorno, trovò il suo abito da sposa gelosamente conservato sotto il cellofan. E ancora, armi e vari amuleti. Vecchissime armature, appartenenti all’epoca medioevale. Scatoloni con apparentemente, cianfrusaglie di ogni genere appartenente a vari membri del clan che vivevano alla villa.

Infatti ogni scatolone riportava il loro nome, sicuramente quello di Iris conteneva vecchi ricordi di quando era una bambina, così spiegava i peluche di pipistrelli.

Sulla parete accanto all’unica finestra sigillata della stanza, c’era un armadietto in legno piuttosto antico e malandato che attirò l’attenzione della vampira. Lo aprì con cautela, aspettandosi che da un momento all’altro una porta le restasse in mano oppure che si sgretolasse tutto quanto direttamente, tanto era vecchio.

Al suo interno vi trovò una spazzola dal manico elaborato, con una gemma verde. Pulitissima, ma un poco intaccata dalla ruggine e dalla polvere. Indubbiamente antichissima, per quanto ben conservata. Assieme vi era ben piegata e riposta quella che le sembrò essere una camicia da notte, assieme poi a dei sofisticati abiti lunghi, appartenenti a suo dire, all’epoca medioevale.

E poi ancora, un ciondolo con una pietra blu riposta sopra una pila di pergamene. Le prese delicatamente in mano per leggere cosa vi fosse scritto, ma purtroppo era francese. Incomprensibile.

Ci rifletté un poco.

Quei oggetti femminili non erano in scatoloni, ma anzi ben conservati in un armadio. Non potevano che essere di una donna molto speciale.

Ipotizzò quindi che fossero di Cassandra, la sua defunta moglie. Si sentì in colpa per aver frugato tra quelle cose di vitale importanza per il vampiro. Sicuramente tra lui e quei oggetti c’era un legame viscerale, nel quale non aveva nessuna voglia né diritto di intromettersi. Facevano parte di un periodo molto felice di Arum che glielo avevano strappato.

Meritava quindi il sommo rispetto e delicatezza. Fece quindi per richiudere l’armadio, ma gli balzò all’occhio un libricino che la incuriosì oltremodo.

Infatti uno dei più oscuri vizi di Kimberly era proprio quello di lasciarsi andare alla propria curiosità. Lo prese in mano delicatamente, come fece con la pila di pergamene.

La carta raggrinzita e fragile, confermavano l’epoca al quale apparteneva. Nonostante questo però era un libro intatto, così come il suo inchiostro. Azzardò l’ipotesi che Arum aveva fatto fare un incantesimo di conservazione da qualche strega.

Cominciò a sfogliarlo, leggendone il titolo: Diario del cuore di Cassandra McBride.

Non vi era alcun dubbio, il suo sospetto fu fondato.

Quelle cose appartenevano proprio a Cassandra. Sapeva perfettamente che non avrebbe dovuto leggerlo, che i ricordi ed i pensieri impressi in un diario sono estremamente intimi, ma un impulso primordiale la spinse a sfogliarlo e leggerlo.

 

 

CAPITOLO 38


Prese posto a sedere su una poltrona foderata con pelo dorato, appartenente sicuramente ad un lican ucciso.

Inquietante trofeo, pensò sedendosi comodamente per abbandonarsi alla lettura. Nelle prime pagine c’erano i pensieri e le giornate di una qualsiasi adolescente, le descrizioni di se stessa e le sue emozioni nel quotidiano e poi, i racconti su vari episodi avvenuti con i fratelli.

Kim ci rifletté per un momento, rendendosi conto che Arum non le aveva detto praticamente nulla circa Cassandra, quindi era quasi come se la stesse conoscendo in quel momento.

Continuò a leggere, soffermandosi sui racconti dei sogni che faceva ed ebbe una strana sensazione. Buffa coincidenza il fatto che anche lei avesse macabri sogni che le parlavano. Proprio per questa affinità che sentiva, non poté fare a meno di leggere anche il resto.

 

Nei giorni seguenti continuò a tornare nella stanza di tanto in tanto per leggere una nuova pagina. Arrivò al periodo di reclusione nel castello di Lord Lavitz, percependo e facendo sue le emozioni di solitudine e tristezza che coglieva dalle righe impresse da Cassandra.

Sensazioni che lei stessa provava quando stava a casa dei genitori. Più leggeva, più si faceva trasportare come se fosse stata lei stessa a scrivere, poiché si rispecchiò in varie riflessioni che la ragazza fece a suo tempo.

Sentiva quella storia sua, come se lei stessa l’avesse vissuta e il senso di colpa per aver violato l’intimità di Cassandra, col tempo svanì poiché la vedeva come una sorta di condivisione affine d’esperienze.

Nei giorni successivi si dimenticò anche dei suoi piccoli impegni quotidiani e delle faccende. Si fece infatti totalmente assorbire dal diario, pur non facendone parola con nessuno, nemmeno con lo stesso Arum che si sarebbe offeso oppure arrabbiato per quel gesto.

E così ogni giorno non vedeva l’ora di passare qualche altro minuto a sfogliare quelle pagine che tanto la prendevano nel profondo. Nella lettura arrivò alle righe in cui la ragazza raccontava della sua fuga al castello, salvata da Arum.

Prima di quel momento vi erano espressi tanti pensieri sulla sua figura, ne era particolarmente attratta. E poi arrivò la morte della sua famiglia, ancora dolore.

Dolore che Kimberly percepì come suo, sentendolo scorrere nelle vene.

Ecco, pensò, perché Arum non parlò dei suoi fratelli.

Morirono atrocemente.

Successivamente ci fu una serie di episodi nel castello di Arum. Il sentimento che nacque nella ragazza era molto simile a quello che aveva vissuto Kimberly quando lo incontrò la prima volta e quando imparò a conoscerlo, guardandolo al di là dell’armatura d’indifferenza che si era costruito.

E poi ancora la loro storia d’amore, le nozze.

Così romanzesco, coinvolgente, surreale. Non c'era da stupirsi che Arum ne fosse tanto legato e con quale fatica avesse imparato a lasciare andare tanti ricordi, tanto amore.

Il senso di colpa in Kimberly tornò impetuoso, questa volta era coinvolto Arum in prima persona.

Non se la sentì di continuare a leggere, ma non serviva sentirsi in colpa, poiché le pagine sbiadirono verso la fine, interrompendosi all’improvviso.

Raggiunse la conclusione che quelli erano i suoi ultimi giorni e quel pensiero le donò un vuoto immenso nel cuore.

Le prese una folle malinconia, decidendo così di riporre il diario e di non leggerlo mai più.

Si pentì amaramente, aveva scaturito qualcosa che sarebbe dovuto rimanere segreto, sepolto. Si chiese come mai sentiva forti le emozioni che aveva letto, come se fossero sue. Inoltre le sembrò strana l’affinità che sentiva con le miriadi esperienze e percezioni provate da Cassandra, così simili alle sue. Legate oltretutto ai sentimenti e alle emozioni.

Arum stesso ammise che ci vedeva molto di Cassandra nei suoi occhi, portamento e carattere.

Kim dedusse che ad Arum piacevano le donne di un certo stile, così dolci e sognatrici. Eppure una vaga sensazione si insinuò in lei, soprattutto per quanto riguardava i sogni. Non poteva fare parola del diario, ma di quei incubi doveva assolutamente liberarsene e la prossima mossa da fare, sarebbe stata quella di consultare Kate. E l'acqua? Sebbene Cassandra non fosse una strega, aveva delle affinità all'elemento e sua nonna stessa, era una strega addetta alla natura acquatica.

Coincidenze strane, spunti su cui riflettere.

 

Senza che Kimberly se ne accorgesse, le settimane impiegate alla lettura, furono passate in un lampo e lo scadere dell’ottavo mese era vicino.

Ancora poco e avrebbe partorito il suo fantastico bambino. Aveva dunque ben altre preoccupazioni.

Ad aiutarla ci furono tutti gli alleati, tra cui Luxor e Ray. Le amiche, che non smisero di seguirla. No, non poteva permettersi pensieri negativi.

Doveva concentrarsi sulla gravidanza.

Un pomeriggio decise di sigillare l’armadio con un incantesimo, anche a costo di farsi del male lei stessa per aver usato i poteri. Soltanto Arum avrebbe potuto aprirlo, ma nessun altro.

Non correva più il rischio di farsi tentare dalla curiosità o dalla nostalgia di quelle righe familiari. Nulla avrebbe più potuto turbare la sua quiete.

 Nulla o quasi.

Perché gli attacchi tornarono. Quei pensieri turbolenti si rifletterono sul suo corpo e dalle mani lanciava sferzate di gelo, come se avesse tra le dita dei cubetti di ghiaccio in grado di lanciare laser ghiacciati come in un film di fantascienza.

 Si doveva calmare e in fretta.

Presa seriamente la situazione, Kimberly riuscì finalmente ad avere un colloquio tranquillo con Kate.

La chiamò nel suo giorno libero e ne approfittò per trascorrere un po’ di tempo con l’amica.

L’aveva invitata a prendere il tè.

«Come mai proprio il tè alle diciassette, come gli inglesi?» osservò curiosa Kate.

«Non lo so, mi è venuta l’ispirazione... tanto lo sai, noi vampiri beviamo e mangiamo per puro piacere» rispose in maniera sofisticata Kimberly.

In realtà quelle furono reminiscenze della lettura del diario di Cassandra.

«Sei strana ultimamente, sai? sono gli effetti della gravidanza?» prese a chiedere l’amica insospettita.

«Presumo di sì... è che ne abbiamo passate già tante Kate, abbiamo avuto quattro anni per riprenderci ed ora mi sento completamente sotto sopra» si giustificò Kim.

«Certo è comprensibile... ma tu mi volevi parlare di sogni, vero?» in realtà volle tagliare corto quel discorso imbarazzante, poiché non se la cavava bene nel confortare le altre persone. Kate era una donna abituata ad esser sola.

«Esatto, sono stranissimi e sempre più ambigui» cominciò a spiegare l'altra.

«Nel senso che sembrano reali?» chiese Kate mentre sorseggiava pensierosa il suo tè.

«No non proprio  come se fossero dei... be' è assurdo» sospirò.

«Dei ricordi forse?» azzardò Kate.

«Sì, qualcosa del genere, ma è pazzesco... perché sono cose che in realtà non ho vissuto, in teoria dovrei ricordare avvenimenti di quando ero bambina o cose del genere.»

«Arum che cosa ne pensa?»

«Di preciso nulla, anzi era d’accordo lui stesso che ne parlassi proprio con te più approfonditamente» la risposta della vampira diede il via alla teoria della donna.

«E allora secondo me, sono dei ricordi precisi di una tua vita passata» sentenziò infine Kate.

«Che cosa? stai scherzando? Ma è impossibile una cosa del genere. Voglio dire... come potrei ricordarmi di cose avvenute addirittura prima che io nascessi!» si sentiva di scartare a priori quell’ipotesi.

«E invece ti dico che è possibile, perché anche se ora sei una vampira, sei stata un’umana con un’anima! E le anime trattengono i ricordi di tutte le vite che hanno trascorso i corpi in cui si trovavano... la mente è una cosa eccezionale Kimberly» cercò di farla ragionare lei.

«Ma ti senti? avrebbe più senso se l’anima ce l’avessi ancora, non credi?» la testardaggine della vampira si fece risentire.

«Ma cosa c’è di normale e naturale nelle nostre vite? Siamo streghe! e tu una vampira, anzi sei addirittura... un mezzo demone! Tutto ciò che ci circonda è straordinario e quindi tutto è possibile, non puoi escludere nessuna teoria Kim, per quanto pazzesca possa sembrare» quelle parole cominciarono a convincerla.

«Non siamo persone normali in effetti... quindi tu dici che sono dei ricordi? E perché proprio ora?»

«Magari è collegata alla tua gravidanza. Il potere di tuo figlio ti ha scaturito questa cosa e tu sogni i tuoi vecchi ricordi.»

Kimberly ci rifletté, sicuramente avevano un significato preciso che tuttavia, non rappresentavano né il passato né il futuro, la volevano avvertire certo, ma di un qualcosa che faceva parte del suo passato. E non poteva essere del suo passato prossimo, dato che molte sensazioni che le donava erano a lei sconosciute, non le aveva vissute in prima persona.

Le battaglie e la guerra contro Zetesis, i demoni e tutti gli altri, le aveva affrontate assieme alle compagne, mentre le battaglie che sognava erano piuttosto differenti.

«Che cosa meravigliosa, quanto pericolosa» osservò distrattamente.

«Dovresti chiedere ad Arum se ne sa qualcosa al riguardo, di sicuro per voi vampiri è molto diverso... avete più sensibilità, sensazioni ampliate. Quindi anche il vostro io interiore dev’essere maggiormente più intenso. Non credi?» il ragionamento di Kate filava.

«Lo credo eccome! Finiamo il nostro tè e andiamo, ora si trova nel suo studio che lavora tra scartoffie e pc» esclamò la vampira, con un bagliore lieve negli occhi, quasi volesse nascondere del rammarico.

«Lavora molto eh?» azzardò Kate.

«Eh già... però è sempre molto dolce, negli ultimi giorni è stato insieme a me... mi mancava molto.»

«Si sente che lo ami tanto... purtroppo la carica di anziano comporta enormi responsabilità, era prevedibile» osservò Kate, entusiasta per quell’espressione di puro sentimento e di legame così speciale.

«Certo e suppongo non sia facile nemmeno per te» si riferiva al fatto che anche Zell aveva delle responsabilità.

«Certo essere il braccio destro del capo comporta molte responsabilità... non ha quasi mai tempo per me tra una cosa e l’altra e poi io spesso mi sento stanca, lavoro molto giù al locale e ho trascurato lui e me stessa» si rese conto solo in quell’attimo che sosteneva ritmi frenetici e sentiva il bisogno di una pausa.

«Anche i tuoi poteri vero? non ti ho mai visto allenarti con le altre» terminarono così il loro tè.

«No in effetti no, non sono ancora salita di livello... ma quando pure tu sarai disponibile, ci alleneremo insieme, che ne dici?» sorrise con il suo solito fare determinato.

«Ma certo! Diventeremo forti alla pari di loro tre! Anzi, ci sfideremo» scherzò Kimberly.

«Che ne dici di andare a farci una passeggiata in centro? Voglio godermi questa giornata e tu hai bisogno di distrarti. Prendere un po' d'aria ti farà bene, Kim.»

«Perché no. Il cielo è plumbeo e io sono stanca di rimanere chiusa qui!» Kimberly ne fu davvero entusiasta. Da molto non trascorreva del tempo in quel modo con le amiche e inoltre, uscì di casa in poche occasioni da quando rimase incinta. L'idea di Kate quindi le parve strepitosa.

La vide afferrare le chiavi della macchina e il cellulare per scrivere un messaggio a Zell circa le loro intenzioni.

Si avviarono così fino a superare il distretto di Los Angeles, Benedict Canyon e raggiungere la città. Kimberly sentì una ventata di freschezza, in tutti i sensi, darle carica. Tuttavia la colse di sorpresa un dubbio atroce.

«Kate e se il bambino scatenasse i miei poteri in pubblico?» si preoccupò immediatamente la vampira, entrando in panico.

«Questo non è l’atteggiamento giusto Kim! Devi stare calma e tutto andrà bene! i poteri sono legati alle emozioni lo sai bene e il tuo bambino lo percepisce. Quindi godiamoci questo pomeriggio e tutto andrà bene» la strega era convinta di quel che diceva e con il suo tono rassicurante e determinato, riuscì a convincere l’altra.

E per iniziare, le propose di far visita al negozio di Kira.

Riuscirono quindi a mettere da parte i problemi e passeggiare tranquillamente tra le vie trafficate e attratte dalla gente per i numerosi negozietti e ristoranti.

Le due amiche si abbandonarono a una chiacchierata amichevole e spontanea, rammentando il passato, le vicende a New York e il futuro. Il futuro che entrambe sognavano coi loro rispettivi compagni.

Kate fantasticava spesso su come sarebbero andate le cose tra lei e Zell.

«Solamente una donna speciale come te poteva sciogliere quel cuore di ghiaccio.»

«Ma no Kimberly che dici, lo sai anche tu che non ha un cuore di ghiaccio! Certo sembra una statua più che un uomo, ma era risaputo che fosse buono infondo. Bastava saperlo prendere.»

«E tu ci sei riuscita alla grande, tutto questo è bellissimo!» condividevano la stessa emozione, lo stesso sentimento. Entrambe si erano innamorate di uomini feriti, aridi, austeri, sotto la maschera del vampiro severo. Per questo motivo potevano capirsi a vicenda, consigliarsi e sostenersi.

«Per quanto sia stato difficile e per quanto lui sia difficile, con quel suo carattere così chiuso, io lo amo alla follia Kimberly.»

«Sei ricambiata Kate, te lo assicuro. Ora ci vogliono solo le nozze!»

«Ma un giorno io… invecchierò e morirò. Secondo te sarà disposto a tramutarmi?» quelle riflessioni facevano male. Non ci pensava granché, cercava infatti di andare il meno possibile con la mente a quel futuro, ma era una realtà. E la spaventava.

«Sarà restio come lo era Arum, ma vedrai che alla fine cederà. Purtroppo non vi è altro modo per rimanere insieme. Condividere questa eternità altrimenti insopportabile.»

Le parole di Kimberly fecero riflettere Kate. La vita di per sé può essere insopportabile nella solitudine, figuriamoci se è lunga un’eternità.

Non fecero in tempo a svoltare l'angolo in direzione del negozio di Kira, che Kimberly si paralizzò di colpo. Tremante e con le pupille dilatate.

«Che cosa ti prende?» chiese Kate scrutandola preoccupata.

Ma Kimberly non rispose, era intenta a fiutare qualcosa nell'aria che aveva catturato la sua attenzione.

«Mi stai facendo seriamente preoccupare, Kim! Rispondimi!»

«Ci sono dei lican. Li sento, sono qui nei dintorni Kate.»

Quella rivelazione scosse entrambe. Che ci facevano dei licantropi in quella zona, proprio nei paraggi del negozio di Kira.

Il primo pensiero andò inevitabilmente a lei.

«Dobbiamo andare a controllare se sta bene, sbrighiamoci» affermò Kate afferrando l'amica per un braccio e riprendendo il cammino a ritmo sostenuto.

L'odore era sempre più vicino e la tensione crebbe in Kim che si vide costretta a inspirare ed espirare a fondo per non perdere il controllo.

«Aspetta Kate, aspetta!» si fermò nuovamente Kim, attratta da alcune figure in fondo a un vicolo che riuscì a scrutare proprio mentre ci passarono davanti.

«Saranno dei vagabondi Kim, forza non abbiamo tempo da perdere!» si lamentò la donna.

«No. Sono loro e ci stanno aspettando» sentenziò la vampira, avanzando guardinga lungo il vicolo.

Kate stava per obiettare, ma due omoni si piazzarono di fianco a lei, uno da una parte e uno dall'altra, puntandole contro la canna di una pistola, tenuta sotto la giacca in jeans.

«Non una sola mossa» avvisò il primo.

«In ogni caso non potresti usare i tuoi poteri qui, tra la gente, strega» ringhiò il secondo in tono sprezzante.

«Maledetti cani rognosi!» Kate dovette arrendersi, non poteva fare nulla.

E Kim si trovava da sola.

Ad attenderla c'erano quattro uomini, capitanati da un giovanotto con sopracciglia folte, capelli a spazzola e occhietti tetri, in una tenuta da biker.

Dava tutta l'impressione di essere un giovane lican, non aveva un'energia molto elevata, secondo le percezioni di Kimberly.

«Non mi aspettavo di incontrare proprio voi in persona, Lady Kingsdale»  esordì il ragazzo con tono divertito e allo stesso tempo, lievemente arrogante. Era un tipo pieno di sé.

Kimberly sorrise, era lui a divertirla. Le faceva quasi compassione.

«E che cosa vuole un cucciolo da me?»

«Domanda interessante che trova molteplici risposte.»

«Non giocare a fare il grande. Mi cercavi?»

«Sì. Non conoscevo la posizione esatta della vostra villa, ma fonti certi mi hanno rivelato dove si trovava il negozio di una delle streghe. Volevo parlarle, ma visto che ci siete qui voi...»

«Fonti certe? Parlare?» a Kimberly non piacque per niente il comportamento troppo sicuro di sé di quel ragazzo.

Troppo giovane per essere un alfa, quindi chi era e che cosa voleva? I lican non sono tanto stupidi da addentrarsi in un covo di vampiri. Specie in quello di un anziano.

«Abbiamo torturato un novizio appartenente al vostro clan. A quanto pare è amico di questa... Kira» rispose il giovane con un ghigno soddisfatto sul viso. Sembrava quasi, dal suo sguardo, che rivivesse a mente le torture che inflisse al poveretto di turno.

«Infido bastardo!» si alterò Kimberly.

«Calma Lady Kingsdale, calma. Per il bene del bambino...»

«Non toccherete mio figlio!» istintivamente, la vampira si proteggeva il grembo con le mani, pronta al peggio.

«Non vogliamo fargli del male, ci serve che nasca in salute. Per il bene di tutti!»

«Di tutti voi? Mi rendo conto perfettamente che sarà il nemico numero uno di tutti i branchi di licantropi, poiché egli è il figlio di un anziano vampiro!»

«Oh certamente. Tuttavia, ci siamo uniti a qualcuno di vostra conoscenza, per trarre vantaggio dai poteri di vostro figlio.»

«E chi sarebbe?»

«Pensateci. Ad ogni modo, mio padre mi ha incaricato proprio di riferirvi questo. Il potere di vostro figlio, unito agli oggetti sacri di Ecate, cambieranno la storia e vedremo se non saremmo noi lican, la razza superiore!» il giovane alzò i toni per dare enfasi alle sue parole. Come era previsto, i licantropi avrebbero fatto qualsiasi cosa per contrastare i vampiri, perfino servirsi degli stessi.

«Così giovane e così folle. Come conosci queste cose e chi diamine è tuo padre?»

«Sono Hayden, figlio di Fenrir.»

Quella rivelazione fu uno shock per Kim. Non sapeva che l' anziano lican avesse un discendente.

«Lo disse infatti che ci avrebbe cercati e trovati. Per vendicarsi.»

«Esatto Lady Kingsdale e vostro figlio sarà il mezzo!»

«Mai! Voi bastardi non avrete mai mio figlio!» Kimberly iniziò ad urlare con tutta la rabbia e isteria che aveva in corpo, emettendo uno stridio che colpì i lican, dando loro l'impressione che la testa potesse esplodere da un momento all'altro.

Hayden con un balzo, raggiunse le scale antincendio di un'abitazione e scappò.

Gli altri tre che erano in sua compagnia, non poterono salvarsi.

L'ira di Kimberly scosse il bambino che fece materializzare la rabbia, in una sferzata di ghiaccio che uscì dalla bocca della vampira come dardi e si conficcarono nelle gole dei nemici.

Il loro sangue zampillò come una fontana cremisi e caddero a terra, con liquido cerebrale che usciva dalle loro orecchie, mentre la pozza di sangue si allargava rapidamente. Erano davvero morti.

Kimberly tornò in sé nell'attimo successivo, scrollandosi incredula di quello che era riuscita a fare e delle parole di Hayden che le ronzavano nella mente.

Alle sue spalle sentì Kate raggiungerla.

«Kim tesoro, stai bene?»

«Torniamo a casa, ho bisogno di stendermi. E di parlare con Arum» la voce della vampira era debole tanto quanto il suo fisico.

 

 

 

CAPITOLO 39

 

 

Fecero ritorno immediatamente alla villa e Kate andò nello studio del vampiro, per avvisarlo dell'accaduto.

In preda al panico, rimproverò Kimberly per essersi esposta, che nel frattempo si era sdraiata sul sofà del salone.

«Avevo bisogno di prendere un po' d'aria, di camminare... non potevo di certo sapere che c'erano dei lican in agguato!» protestò la vampira.

«E Kira, sta bene?» chiese Arum ancora stizzito.

«Caspita hai ragione! Kira! La chiamo subito» Kate afferrò il cellulare e di corsa uscì dalla stanza, permettendo ai due coniugi, di parlare circa l'accaduto con Hayden.

Kimberly inoltre, gli parlò della teoria di Kate circa un recupero di alcuni ricordi di una vita passata, causati della gravidanza.

«In effetti ci sarebbe una cosa» rifletté Arum. «Vedi, quando ti ho tramutata è stato in via del tutto eccezionale» cominciò a spiegare l'uomo.

«Alludi forse al fatto che ero già morta?» capì lei.

«Esatto... vedi, funziona così: in genere si trasformano gli umani vivi o in fin di vita e la loro anima, come si usa volgarmente dire, viene condannata. In realtà ci appartiene appieno, diventa parte del vampiro che trasforma quella persona. Durante la trasformazione ognuno percepisce delle forti sensazioni, delle pulsazioni di vario genere. Ma per tutti c’è una cosa in comune. Ossia, poco prima della tramutazione completa, si rivivono alcuni flash di tutte le proprie vite precedenti. A te questo non è successo, la tua anima già si stava staccando dal corpo perché eri morta. Ti ho presa in extremis. Quindi non hai potuto tramutarti come si deve, il tuo è stato un processo secondario, mentre il tuo corpo umano già non viveva più.»

A Kimberly sembrò scoppiare la testa con quella spiegazione di cose che non immaginava nemmeno potessero succedere.

«Com’è affascinante però, tutto questo» osservò incuriosita Kate, rientrata nel salone in quel momento.

«Già... non per niente, noi vampiri abbiamo quel nonsoché che ci rende unici, sublimi… non trovate?»

Annuirono entrambe le donne.

«Tutto a posto con Kira?»

«Sì Kim, lei sta bene.»

«Ma perché li ho proprio ora questi flash?» continuò Kim.

«Amore, per la tua gravidanza appunto! È evidente che il potere del nostro bimbo, ti ha scatenato varie cose dentro di te, quindi anche questo naturalissimo processo per qualsiasi vampiro» Arum l’abbracciò teneramente.

«Dai stai tranquilla, vedrai che passeranno» cercò di consolarla infine.

«Ma fanno così paura... la maggior parte delle volte sono macabri, sanguinari. Altri invece totalmente privi di senso, almeno in apparenza... però così ambigui che... non sono tranquilla ecco» piagnucolò la vampira.

«Arum, ascolta» intervenne prontamente Kate.

«Non è che ci sia un modo per far rivivere a Kimberly tutti i suoi ricordi in un processo più... comune, come tutti gli altri, affinché non ne sia più tormentata?» la sua domanda era fondata.

«Certo penso di sì, siete streghe e molto potenti. Credo siano ben poche le cose che non potete fare. E al di là di questo, sentii parlare di un incantesimo a tal proposito, una sorta di ipnosi» spiegò Arum annuendo.

«Ipnosi regressiva! Ma certo!» a Kate le venne l’idea.

«Qualcosa di simile, ma più mirato e... magico, ovviamente» spiegò entusiasta Arum.

Non restava loro che sottoporre Kimberly ad un’ipnosi.

«Ci vorrebbe dunque qualcuno di molto esperto, in grado di poterti aiutare. Ci staresti a questa prova Kim?» le chiese l’amica.

 La vampira guardò il suo amato che le fece cenno di acconsentire.

«Ci sto... ma, a chi chiedere?» ci rifletterono tutti, cercando a mente il candidato migliore.

«Ci sono!» esordì infine Kim.

«Potremmo chiedere ad Ecate! Dopotutto, sono una specie di figlia per lei, giusto? Lei di sicuro potrà aiutarmi» l’idea parve buona anche agli altri.

«Per evocarla ci dovremmo essere tutte... chiederò alle altre di unirsi a noi questa sera, che dite?» propose infine Kate.

«Va bene, il rituale lo svolgeremo nella sala due, come al solito» acconsentì Arum.

«Vado subito ad avvisare Karen e Kira, tu pensa a Kelsey! A dopo!» la donna non voleva perdere tempo e così si precipitò fuori dal salone, intenta più che mai ad aiutare l’amica visibilmente angosciata da quella storia.

La vampira si strinse tra le braccia di Arum, che le accarezzò il pancione. La sua mano ondeggiava sul fulcro del loro pargolo. Ne percepiva il tepore, lo scalciare sporadico.

«Andrà tutto bene amore mio... non comprendo perché ti agiti tanto» osservò Arum.

«Non lo so perché mi sale questa ansia, ma ho bisogno di sapere. Di scoprire. Ho bisogno di riacquistare tutti i ricordi delle mie vite e... aspetta! Allora è successo anche a te?» solo in quel momento realizzò che anche il marito avrebbe potuto avere delle vite precedenti prima di tramutarsi in un vampiro.

«Ma certo piccola, ho rivisto me stesso in tutte le altre mie vite... pensa che sono stato addirittura una sorta di principe egiziano ed un nobile dell’antica Cina» la visione del vampiro vestito da egiziano o in kimono, fece sorridere Kimberly.

«Scusa amore, ma non ti ci vedo proprio!» scherzò lei.

«In effetti nemmeno io, stavo malissimo da egiziano, truccato oltretutto! Ma ti rendi conto! proprio io» scoppiarono assieme in una liberatoria risata.

«Ti senti meglio?» le chiese accarezzandole il viso, scostandole dagli occhi una ciocca della morbida frangia.

«Quando scherzo con te mi riempio di gioia immensa, mi fai stare bene... lo sai... quindi sì, sto meglio» gli sorrise, per poi baciarlo teneramente.

La dolcezza e la passione erano state momentaneamente accantonate in quei otto mesi e non vedevano l’ora di poter recuperare di quel tempo sprecato. Sebbene avessero l’eternità davanti a loro, non volevano togliere l’uno all’altra neanche un istante.

 

Quella sera, attendendo la mezzanotte, allestirono nel salone un lettino dove far stendere Kimberly, sotto la guida di Kelsey.

«Le ho studiate queste cose, ti assicuro che ne avrai bisogno... perché dovrai cercare di stare rilassata il più possibile e poi, le conseguenze saranno incerte. Potrai sentirti felice o triste, o nervosa e a quel punto, agitarti finendo col muoverti... Per noi sarà meglio se le stiamo vicini a cerchio» spiegò con fare sicuro la ragazza.

«Ma non mi accadrà niente di serio, vero? voglio dire, tu amore ci sei passato, non è che sia pericoloso o cosa... non verrò danneggiata in qualche modo!?!» si preoccupò la vampira rivolgendosi all’amato.

«Ma no, non credo... forse agli umani... giusto Kelsey?» a quella domanda, la ragazza annuì.

Kimberly non avrebbe dovuto temere nulla.

Disposero le candele a cerchio attorno al lettino e le si avvicinarono. Arum le stava accanto, vicino il viso per poterla baciare ed osservare.

Le cinque streghe si presero per mano ed iniziarono l’evocazione concentrandosi in lunghi sospiri.

«Dal potere dell’acqua e della vita, noi ti evochiamo» cominciò Kimberly.

«Dai poteri del fuoco e della purezza, noi ti evochiamo» continuò Kira.

«Dai poteri dell’aria e della saggezza, noi ti evochiamo» fu il turno di Karen.

«Dai poteri della Madre terra e della conoscenza, noi ti evochiamo» pronunciò Kate.

«Dai poteri del tuono e della pura energia, noi ti evochiamo» terminò Kelsey.

«Dai poteri di tre volte tre, vieni a noi! Vieni a noi Ecate!» pronunciarono tutte in coro.

Le fiamme delle candele presero a danzare alzandosi con vigore. Attorno a loro, un fumo violaceo le avvolse, per poi materializzarsi in un’immagine. Quella della Grande Strega.

«Le mie figlie preferite» esordì quasi sorpresa di quel richiamo improvviso, dopo tanto tempo.

«Grande Madre Strega, abbiamo bisogno del tuo aiuto» intervenne prontamente Kimberly.

«Mia diletta, che cosa ti affligge? Perché sei su questo lettino?» il demone la squadrò con interesse.

«Non lo sai? ho dei problemi» la vampira si stupì della mancata conoscenza dei fatti da parte di Ecate.

«Il tuo figlioletto non mi permette di interagire con te» spiegò questa. «Che immenso potere... siete fortunati sapete, questo è l’erede di un potere inaudito! Sarà invincibile e sono sicura governerà lui sulla razza dei vampiri e delle streghe! dico bene paparino?» si rivolse ad Arum.

«Certo che sì! Ma non come un tiranno» rispose lui orgoglioso.

«Bah... lasciamo perdere! Allora mia cara, spiegami che cosa ti succede» tagliò corto il demone.

Kimberly le spiegò della sua mancanza di controllo dei poteri e soprattutto, dell’angoscia che l’affliggeva circa i suoi incubi.

«Ho capito... effettivamente è perfettamente naturale che tu ti senta così. Per questo ci sono delle regole!» nel pronunciare quelle parole con una nota di rimprovero, guardò Arum.

«Ma io sono in grado di farti recuperare i ricordi di tutte le tue vite precedenti, questo è chiaro. In particolar modo cerchiamo di capire perché questi incubi ti tormentano. Bada però, tutto ciò comporterà una notevole dispersione di energia anche da parte tua» l’avvertì.

«Mi sento già debole per la gravidanza, non è un gran male... e penso ne valga la pena! È una cosa che va fatta e non mi posso tirare indietro» la solita testardaggine della vampira riemerse puntuale.

«Ottimo, allora cominciamo. Voi fate tutti quanti un passo indietro per cortesia» ordinò il demone.

«Chiudi gli occhi Kimberly. Rilassati... ascolta il suono della mia voce, lasciati penetrare dall’energia che ti trasmetterò... sentila nelle vene, sulle palpebre... che via via si faranno più pesanti, stancandoti... ti addormenterai... la tua mente si staccherà dal tuo corpo e vagherà nel passato... vagherà nell’immenso spazio della tua memoria... ascoltami... dormi... viaggia» mentre Ecate pronunciava quelle frasi, faceva fluire la sua energia e aura di Spirito, lungo tutto il corpo di Kimberly che ne assorbì il potere.

Si addormentò fin da subito lasciandosi andare, lasciandosi cullare dai flash di ricordi che non tardarono ad arrivare.

Dapprima si rivide lei bambina dall’aspetto vagamente asiatico, in un kimono dai colori sgargianti. Passeggiava nei pressi di quella che poteva essere una foresta. Vedeva scorrere immagini di monti, vette innevate, praterie in cui correva con altri ragazzini.

Poi un enorme palazzo, probabilmente imperiale. I fiori di pesco che le svolazzavano attorno, trasportate dal vento primaverile.

E poi ancora, lei adulta nell’epoca dei sovrani egizi, in un lungo abito di lino, bianco. Aveva l’espressione triste, poi accigliata.

Se ne stava affacciata a una finestra ad osservare il sole che moriva nell’immensa distesa del deserto.

Per poi passare ad immagini sfuocate di una ragazzina dai capelli rossi.

Sì, era lei, Cassandra.

Mentre quelle immagini le scorrevano ad un’impressionante velocità davanti ai suoi occhi chiusi, si agitava e si contorceva, come se quelli fossero ricordi pericolosi.

 «Vedete, sta ripercorrendo dei tratti significativi per lei» spiegò Ecate giustificando il suo improvviso tormento.

«Mi raccomando però, svegliatela se la cosa si fa dolorosa! Non voglio che soffra» si accertò Arum.

«Impossibile, non possiamo fermare il processo una volta avviato. Che credi, questo è un incantesimo vero e proprio» sbottò Ecate.

Intanto i flashback di Kimberly continuavano.

Si erano materializzate nella sua mente le parole del diario che aveva letto. Avevano preso la forma di immagini e persone.

La gente del villaggio di Cassandra, il volto dei suoi fratelli, dei suoi genitori. A quelle ultime figure l’agitazione si fece più intensa, sotto gli occhi preoccupati delle amiche e di Arum, che le accarezzava delicatamente i capelli.

I ricordi si accavallarono tra le umiliazioni subite dalla ragazzina, le lacrime, i sorrisi con la sorellina minore, le risate, le corse nei campi, le nuotate al lago.

Il profondo legame con l’acqua.

Sì, l’elemento affine a Kimberly stessa, simbolo del suo potere di strega.

E poi ancora, l’esperienza con Lord Lavitz e la prigionia, l’amore in seguito con Arum e la loro bellissima storia.

Tutto prese ad avere senso.

Leggendo il diario, si riappropriava di cose scritte da lei, cose che aveva vissuto in prima persona, ma con un altro corpo.

Per questo motivo le dava una strana sensazione familiare e la spingeva a saperne sempre di più.

I flash terminarono con lo scontro tra il clan di Arum e quello di Zetesis, i soldati vampiri che lottavano senza sosta, proprio come nei suoi incubi.

Il dolore che provava mentre era nelle mani di Zetesis. L’accecante tortura che la dilaniava, spiegazione dell’ambiguità tetra e malinconica che le portavano sempre i soliti incubi in flash.

Il momento in cui Zetesis le conficcò nello stomaco la lama.

Ed infine la morte.

«Noi ci ritroveremo sempre» sussurrò Kimberly.

«Che cosa ha detto?!» esclamò Kate.

«Non è possibile!» prese a riflettere Arum.

«Ci ritroveremo sempre» ripeté Kimberly ancora sotto ipnosi.

«Questa è stata l’ultima frase di... prima di» ben presto il vampiro si rese conto che si trattava proprio di lei, la donna che aveva amato più di se stesso.

«Cassandra! È Cassandra!» esultò, cercando poi di risvegliare Kimberly che aprì gli occhi con uno sguardo perso nel vuoto.

«Ora ricordo tutto» sussurrò priva di emozioni.

«Cassandra, sei tu non è vero?» insistette Arum.

«Ma com’è possibile?!» esclamò Kira.

«Pazzesco» osservò sorridendo Karen.

«Ragazze... amore mio... sì, sono io! ora ricordo! Ricordo tutto» esultò la vampira. Kimberly non era altro che la reincarnazione di Cassandra.

«Oh amore mio, come sono felice» esplose di emozione Arum abbracciando la sua amata, entrambi in lacrime.

Piansero insieme di felicità per essersi ritrovati.

«Infondo lo sapevo... io lo sapevo che non mi potevo innamorare di nessun’altra donna! nella dolcezza, nel carattere e negli occhi di Kimberly ci ho sempre rivisto te, amore mio» dichiarò il vampiro ancora incredulo.

«Come io sapevo che ci saremmo ritrovati un giorno, non è un caso... noi siamo destinati a restare insieme» sorrise lei ancora colta dall'emozione.

«Ti amo Arum» ora quelle parole avevano un altro significato e consapevolezza.

L'uomo ebbe un attimo di esitazione. «Ti amo anche io... come ti devo chiamare?» ridacchiarono tra loro.

«Chiamami pure Cassandra, sono tornata» rispose lei mantenendo il suo dolce sorriso ch’egli tanto amava.

«Che confusione! Non ci sto più capendo nulla... dunque tu, Kimberly, sei la reincarnazione di Cassandra? Siete la stessa persona?» intervenne Karen.

«Esatto, l’anima ha preso questo corpo, si è reincarnata... e il fato mi ha ricongiunta con il mio amato» rispose Cassandra, con un tono diverso da quello di prima. Quasi il timbro vocale stesso cambiò.

«Quante cose sono cambiate... quanto io sono cambiato. Ho riscoperto una parte di me stesso che avevo sepolto... ho rispolverato l’amore... e tutto questo con te amore mio! Sempre e solo con te! è incredibile» si sentiva confuso, quanto felice. Secoli a distruggersi dentro e poi all'improvviso, ritrovare quel che si era perduto.

Lei lo abbracciò stringendolo a sé. «Incredibile ma vero. Inconsciamente può darsi che io abbia fatto molto per avvicinarmi a te» si strinsero in un abbraccio nostalgico.

I loro esseri si sussurrarono parole d’amore.

«Che cosa romantica. Neanche nei film accade una cosa del genere» osservò sognante Kelsey.

«A me questi due stanno facendo venire il diabete» sbottò invece Kira.

«Bene ragazzi, per me invece è giunto tempo di andare. Cassandra, hai riacquistato i tuoi ricordi. Come ti senti?» riprese Ecate.

«Mi sento un po’ scombussolata, ma sto bene. Meravigliosamente bene» sorrise entusiasta la vampira.

«Se avete ancora bisogno di me, evocatemi. A presto figlie mie, siate benedette» furono le ultime parole della Grande Strega, poco prima di svanire.

Le ragazze lasciarono soli i due innamorati.

Avevano molte cose da dirsi, molte emozioni represse da esprimere.

Rivivere gli ultimi istanti di vita di Cassandra con Zetesis.

«Non immagini nemmeno il dolore che ho patito... quanto mi sei mancata... quanto ho sofferto» continuò Arum commosso.

«Lo immagino, posso sentirlo. Che cosa buffa se ci pensi... l’affinità con l’acqua... e ora sono una strega elementale! E meno male che ti sei innamorato di me» cercò di spezzare l’aria pesante di agitazione che si era creata, scherzando.

Le mura della stanza parevano impregnate della malinconia e dolore del vampiro. Voleva sdrammatizzare per farlo nuovamente sorridere.

«Non mi sarei potuto innamorare di nessun’altra donna. Quando ho visto questi occhi, ho subito pensato a te. Quando ti parlavo, quando vivevamo le nostre prime esperienze di conoscenza. Tutto mi parlava di te, mi riportava alla mente i vecchi ricordi... dovevo capirlo che c’era qualcosa di più sotto» dichiarò il vampiro con sguardo trasognante.

«E come potevi pensarlo! Una cosa del genere non si può di certo immaginare. E la sai una cosa?»

«Dimmi mia amata.»

«Anche io sono stata una nobile cinese e ho vissuto nell’epoca egizia» risero per le coincidenze che come sempre, dimostravano la loro dovuta unione.

«Quanto sono fortunato ad averti... ad averti al mio fianco» le accarezzò il viso, lo stesso viso che aveva perduto e ora si trovava tra le sue mani.

Erano sposati e attendevano un bambino.

Ancora troppo bello per essere vero.

«Mi è venuta in mente una cosa» rifletté perplessa Cassandra. «Che fine ha fatto Craig?»

Il vampiro a quella domanda si scurì in volto. «Purtroppo morì lo stesso giorno, in quel brutale scontro con Zetesis.»

La notizia ferì la vampira. «Mi dispiace... mi ero affezionata a lui» dichiarò malinconicamente.

«Lo eravamo tutti, era un brav’uomo» ammise lui.

«E Zetesis che fine pensi abbia fatto ora?» fino a quel momento, non avevano più pensato o temuto il nemico.

«Non lo so, forse è rimasto in Irlanda... ho voluto risparmiarlo perché non era quello il modo col quale volevo sconfiggerlo. Preferirei combatterlo corpo a corpo. So che tu mi puoi capire» era il suo assassino, ma i suoi ideali erano comunque molto sentiti.

«Per questo ti amo. Sei così giusto amore mio» si baciarono a lungo. Ancor più difficile stare lontani dopo tale rivelazione di un’importanza significativa per le loro esistenze.

«Quello che più temo in questo momento non è Zetesis, ma quel Hayden... e Fenrir. Un'altra gatta da pelare!»

«Un lupo da pelare!»

Risero all'unisono rimanendo abbracciati. Fondendosi.

 

Quella stessa notte, organizzarono un cenone con tanto di festa per celebrale il ritorno di Cassandra.

Zell e Luxor furono i primi a salutarla con immenso affetto, felici di poterla riabbracciare.

Nell’aria c’era un clima di nostalgia, di sorpresa, ma soprattutto di felicità.

Solamente le quattro ragazze rimasero basite per l’accaduto.

«L’avete vista? Non è più lei... sembra molto diversa» osservò Kate. Se ne stavano appartate in un angolo a contemplare la situazione.

«Temo che se questa parte di lei prevarrà, il nostro legame ne risentirà non poco, perché quella non è la nostra Kimberly, ma un’altra persona» aggiunse Kira accigliata.

«Tecnicamente ti sbagli. L’io più profondo è sempre lo stesso. I pensieri, abilità, carattere... hanno formato la Kimberly che conosciamo, ma c’è molto di Cassandra. Quella è Cassandra» spiegò Kelsey.

«Ad ogni modo dovremmo starle tutte molto vicino e sperare in bene. Il cerchio non si deve spezzare» concluse Kate, per poi separarsi dal gruppo.

Non stava bene che venissero notate confabulare tra di loro in maniera così guardinga.

 

I giorni passarono e Cassandra familiarizzò appieno con se stessa e con ciò che le stava intorno. Gli otto mesi stavano per scadere, si teneva pronta al parto.